Di recente ho difeso un genitore, 80enne (!!), invalido civile al 100% ma però "portatore sano" di casa di proprietà, di pensione normale - circa 1700 euro - e pure di un affitto di medio valore, dalla richiesta di assegno alimentare e/o accoglimento in casa (mica lui solo : moglie e prole al seguito) del figlio cinquantenne, anche lui invalido, disoccupato...
Ho vinto sulla pregiudiziale (chissà se la questione si fosse spostata sul merito, dove pure ero battagliero, come sarebbe andata a finire ) che il figlio che agiva per essere aiutato dal vecchio genitore (a 80 anni si può usare la parola "vecchio" ? mi sa di no, ma io la uso lo stesso, perché quello si è a quell'età) aveva a sua volta due figli, trentenni, cui nulla aveva chiesto sull'apodittico assunto che tanto non avrebbero avuto mezzi - ancorché lavorassero entrambi...- e poi erano "in pessimi rapporti col padre".
Ovviamente l'ultima cosa valeva esattamente anche per il mio cliente, ché altrimenti non ci sarebbe stato certo bisogno di intentare una causa giudiziaria.
La legge sul punto è chiara : l' obbligo alimentare procede per gerarchie ben delineate, e i propri discendenti sono onerati prima dell'ascendente, come del resto appare anagraficamente logico, oltreché anche naturalmente direi.
Ritengo che controparte abbia fatto un errore tattico giuridico, ché se il figlio avesse presentato la domanda in nome e per conto del proprio minore, quindi nipote del mio assistito, quella pregiudiziale NON avrebbe operato, e in quel caso credo che il nonno avrebbe un obbligo antecedente o quantomeno concorrente coi fratelli, tenuto conto delle nuove disposizioni in materia.
E già, genitori che , giustamente, non hanno voce in capitolo sulle scelte affettive dei figli - cosa ovvia al giorno d'oggi nel civile occidente, meno altrove e non così nemmeno da noi ancora nella prima metà del secolo scorso - hanno però poi l'onere di provvedere nel caso quelle si siano confermate avventurose, fatte senza discernimento, senso di responsabilità (per esempio, nel caso che mi ha occupato, era decisamente così ).
In un delirio di deresponsabilizzazione crescente degli individui, sempre pronti nella nostra società a rivendicare libertà di tutti i tipi, molto meno a decriptare la parola "doveri", dove pare normale parlare di "reddito di cittadinanza", come se fosse una cosa normale ricevere del denaro solo per il fatto di essere nati nella parte fortunata della pianeta, aumentano i casi dove i figli adulti e disoccupati fanno causa non solo ai propri genitori - e lì bisogna vedere caso per caso come stanno le cose - ma anche ai parenti, immagino perché sicuramente possidenti a differenza del proprio padre e/o madre (più infrequente questa seconda opzione ...).
I nonni sono stati subito bersagliati, adesso vedo che la cosa si è estesa agli zii...
Per fortuna la Cassazione ha respinto il primo assalto.
Per ora...
Figlia adulta e disoccupata? Zii non obbligati al mantenimento
Cassazione Civile, sez. I, sentenza 24/11/2015 n° 23978
Arriva in Cassazione – sentenza 24 novembre 2015 n. 23978 – il ricorso di una figlia che ha agito in giudizio nei confronti del padre per la violazione del dovere di assistenza morale e materiale. La figlia, anche se non ancora avviata al lavoro e iscritta nelle liste di collocamento, non ha diritto al risarcimento, né all’assegnazione della ex casa coniugale. Respinta anche la richiesta di ottenere il mantenimento dalle zie paterne.
Il caso
La figlia, aveva depositato ricorso ai sensi dell’art. 148 c.c. che impone ad entrambi i genitori l’obbligo di concorrere al mantenimento dei figli. Il Tribunale di Roma, aveva dichiarato la propria incompetenza territoriale, in ordine alla domanda di risarcimento dei danni in conseguenza della condotta del padre tenuta in violazione dei doveri genitoriali e aveva giudicato inammissibile la domanda della ricorrente di assegnazione della ex casa familiare. Infine aveva respinto, per difetto di legittimazione passiva, la domanda di mantenimento nei confronti delle zie paterne. Anche la Corte d’appello, pur dichiarando la propria competenza territoriale, aveva ritenuto le domande non provate o inammissibili.
La sentenza della Cassazione
La ricorrente, in Cassazione, censurava in primo luogo la decisione della Corte d’Appello di non aver ammesso le istanze istruttorie e comunque di aver errato sulla valutazione delle prove documentali depositate. Secondo la Corte di Cassazione, essendosi il Tribunale di Roma limitato a dichiarare la propria incompetenza territoriale, la reclamante avrebbe dovuto riproporre in appello le istanze istruttorie formulate in primo grado che non erano state esaminate dal primo giudice.
Incombe sull’appellante, stante l'effetto devolutivo dell'appello, l’onere di reiterare nell’atto introduttivo le richieste istruttorie non ammesse o non esaminate in primo grado, ai sensi degli artt. 342 e 345 c.p.c. (Cass. Civ. n. 9410/2011).
La figlia lamentava, inoltre, la violazione della legge n. 898 del 1970, art. 9 co. 1 in materia di revisione delle condizioni di divorzio, degli artt. 147 e 315 bis c.c. sui diritti del figlio di essere mantenuto e assistito e dell’ art. 3 della Convenzione di New York del 20.11.1989 che impone la considerazione del preminente interesse dei figli minori.
Queste norme sarebbero state violate perché la Corte di Appello ha ritenuto inammissibile la domanda di assegnazione dell’ex casa coniugale, sul presupposto che il provvedimento può essere emesso solo nell'ambito del procedimento di separazione o di divorzio.
La Cassazione non ha accolto la censura per difetto d’interesse, in quanto l’immobile in questione non era nella disponibilità giuridica del padre.
Infatti, l’abitazione era di proprietà della nonna paterna che l’aveva data in comodato al figlio, perchè la utilizzasse come casa coniugale. Tale rapporto di comodato gratuito era venuto meno, con il dissolversi delle necessità familiari.
La sentenza ha richiamato il recente orientamento della Cassazione in materia (Cass. Civ. S.U. n. 20448/2014), secondo cui il comodato di immobile, pattuito per la sua destinazione a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso "anche nelle sue potenzialità di espansione", deve essere configurato come comodato a termine di cui all’art. 1809 c.c.
Il termine, individuato per relazionem, coincide con la destinazione dell’immobile a casa familiare indipendentemente dall'insorgere di una crisi coniugale. Se il contratto fissava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, è giusto che questo continui fino al venir meno delle esigenze della famiglia.
Infine, non può essere accolta, secondo la Corte, la domanda di contribuzione al mantenimento nei confronti delle zie. Quando la norma di cui all’art. 148 parla di ascendenti "tenuti a fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli", non può certo riferirsi agli zii, parenti in linea collaterale che rispetto alla nipote, pur avendo uno stipite comune, non discendono l'uno dall'altro (art. 75 c.c.).
Nessun commento:
Posta un commento