lunedì 25 aprile 2016

NEL GIORNO DELLA RETORICA DELLA LIBERAZIONE, PANEBIANCO RICORDA L'IMPORTANZA DEGLI USA IN EUROPA

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Nel giorno in cui festeggiamo la liberazione, facendo finta ogni anno che questa sia stata impresa autoctona, frutto della mitica lotta partigiana, laddove la storia dice altro - e cioè che il nazi fascismo, come altrove, non fu mai sconfitto dalle forze della resistenza interna, ma solo dagli anglo americani , vari accadimenti in Europa e ai confini della stessa ci ricordano quando sia stato fondamentale e ancora sia importante una stretta e positiva relazione con gli Stati Uniti.
In nord africa e medio oriente regna il caos, e tra le tragiche conseguenze c'è l'invasione migratoria che scuote dalle fondamenta il sistema Europa e i suoi singoli componenti. 
Il Papa può dire quello che vuole, gli editorialisti politically correct andargli dietro, ma resta che l'Unione Euroea è ai minimi storici di credibilità per non parlare di appeal, e i risultati si vedono in elezioni come quelle austriache dove il partito nazionalista guadagna il 36% dei voti, stacca di gran lunga i social democratici, secondi, e questo in una tornata elettorale dove il 70% degli austriaci sono andati a votare. Non pochi.
In Gran Bretagna tra un po' si vota per rimanere o no nell'Unione, e i separatisti sembrano in vantaggio.
Restando sempre in Inghilterra, il capo dello Stato storicamente amico e alleato della GB viene apostrofato con irriverenza dal sindaco di Londra e possibile futuro premier del paese. 
Non sono bei segnali, e Panebianco ci dedica giusta attenzione.
Alla maggior parte della gente in realtà di queste cose importa nulla, ma la miopia è evidente, visto quanto piccini siamo come italiani ma anche come europei di una Unione che non esiste se non nella burocrazia, nell'affannato euro e nei detestati - e piuttosto ignorati - vincoli finanziari.
Ah, tra un po' si tornerà a parlare di usicta della Grecia..., preparatevi.



Europa-Usa il passo incerto
di Angelo Panebianco




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C’ è qualcosa di malinconico, ma anche di storicamente rilevante, nell’appello del presidente Obama alla Gran Bretagna di non abbandonare l’Unione Europea nel referendum del 23 giugno e nelle reazioni seguite a quell’appello. Obama è il presidente di una potenza in declino e lo sa. Sa che la sua parola, persino nella Gran Bretagna della relazione speciale con gli Stati Uniti, pesa oggi meno di quanto pesassero un tempo le parole dei suoi predecessori. Non è solo in Medio Oriente (Turchia, Egitto, Arabia Saudita) che gli antichi alleati fanno scelte sempre più autonome dall’America. Anche in Europa, anche in Gran Bretagna, gli Stati Uniti possono individuare i segnali del proprio indebolimento egemonico.Un leader come il sindaco di Londra Boris Johnson, impegnato, contro il premier Cameron (del suo stesso partito), a favore dell’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, non avrebbe mai potuto, ancora pochi anni fa, replicare così duramente — e sguaiatamente — alle parole di Obama e pensare di avere ancora un futuro politico. Non certo ai tempi di Margaret Thatcher o di John Major. Ma neanche a quelli di Tony Blair. Se nel referendum di giugno i britannici sceglieranno di restare nella Ue, questo sarà (oltre che un successo dell’Europa) un successo personale del premier Cameron. Ma anche Obama, che si è così sbilanciato a favore di quel risultato, ne ricaverà un beneficio di immagine.
Se le cose però andranno diversamente, se la scelta degli elettori sarà opposta, a prescindere da tutte le altre conseguenze, ne uscirà anche confermata la generale percezione di una perdita di influenza politica degli Stati Uniti.
Nella seconda tappa, dopo Londra, del suo tour europeo, Obama ha incontrato ieri Angela Merkel. Per rinsaldare il legame e assicurarsi l’appoggio tedesco al Trattato di libero scambio.
Come all’inizio del processo di integrazione europea negli anni Cinquanta, gli Stati Uniti ne sono ancora il principale «sponsor» esterno. Anche se non hanno più la forza e l’influenza di un tempo. Il rapporto fra l’America e l’integrazione europea non ha mai trovato molto spazio nella retorica e nei miti che gli europeisti hanno creato nel corso dei decenni per accompagnare e legittimare le Comunità europee prima e l’Unione Europea poi. Secondo quella retorica e quei miti, gli europei, alla fine della guerra, decisero, autonomamente, di dare vita a istituzioni comuni (a partire dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio del 1951) e a mettere in moto un processo di unificazione, perché volevano porre termine a una disunione che per tanti secoli li aveva visti protagonisti di guerre fratricide e, da ultimo, responsabili dei disastri delle due guerre mondiali.
In questo racconto ufficiale le ipocrisie e le rimozioni erano tante. Si sorvolava sugli aspetti più importanti. A cominciare dal fatto che, a causa della Guerra fredda e della divisione in blocchi, l’integrazione era stata fortemente incoraggiata dallo sponsor esterno, gli Stati Uniti, che temevano un’Europa debole, potenzialmente a rischio di cadere nell’orbita della minacciosa potenza continentale rivale, l’Unione Sovietica. 
Si glissava volentieri, inoltre, sul fatto che l’Europa aveva potuto concentrare gli sforzi sull’integrazione economica (con risultati eccezionalmente buoni) grazie al fatto che il settore della sicurezza era stato «appaltato» alla Nato e quindi agli Stati Uniti. Gli europei poterono permettersi il lusso di una integrazione sulla quale non gravavano gli oneri finanziari della difesa comune né la necessità di dovere fare scelte delicate in tema di sicurezza: scelte che avrebbero potuto generare divisioni fra gli Stati nazionali europei.  
La Ced, la Comunità di difesa, fallì non soltanto perché gli americani non volevano strutture militari in concorrenza con la Nato ma anche per le diffidenze dei francesi (che ne bocciarono il progetto con un voto parlamentare nel 1954) nei confronti della Germania.
Per inciso, così come nessuna persona può liberarsi del proprio passato, neppure le organizzazioni politiche sono in grado di farlo. La Ue balbetta, annaspa e si divide in presenza delle attuali gravissime minacce alla sua sicurezza, per il fatto che la sicurezza, fin dall’origine del processo di integrazione, non ha mai fatto parte della sua più autentica «ragione sociale». 
Il Trattato di Maastricht (1992) doveva porvi un rimedio ma ciò non è avvenuto. Non si sfugge facilmente ai condizionamenti imposti dalla storia pregressa.
Oggi, con il senno di poi, possiamo dire che le ambiguità e le rimozioni europee a proposito del rapporto con gli Stati Uniti hanno pesato negativamente anche sulla moneta unica. Non c’è mai stata molta sincerità di fronte alle opinioni pubbliche, né vera unità di intenti fra gli europei.
Per alcuni, l’euro doveva, oltre che imbrigliare (ma l’ironia della storia è che l’esito è stato opposto a quello allora immaginato) una Germania che si era unificata modificando la carta geopolitica del Vecchio Continente, rafforzare economicamente l’Europa senza spezzare il legame transatlantico. Per altri era invece lo strumento che doveva favorire il definitivo sganciamento dell’Europa, porre le basi di un’Europa-potenza in grado di competere, economicamente ma anche politicamente, con gli Stati Uniti. Per alcuni, insomma, l’euro era un progetto anti americano. Le «dure repliche della storia», come avrebbe detto Norberto Bobbio, hanno mostrato quanto velleitarismo ci fosse in quel progetto.
Forse non è solo un caso che il declino (relativo) della potenza americana e la fase più buia della storia dell’integrazione europea coincidano temporalmente. Simul stabunt vel simul cadent . Staranno in piedi o cadranno insieme.
Non c’è nulla di predeterminato nella storia umana. Non è detto che il declino americano non sia rallentabile né che l’Europa debba per forza disgregarsi. Le scelte che facciamo o non facciamo, e la natura di queste scelte, continueranno a fare la storia. Sembra però poco plausibile immaginare un futuro europeo comune se si spezza o si allenta il legame con gli Stati Uniti.

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