lunedì 27 giugno 2016

E' VIOLENZA SESSUALE IL RAPPORTO NATO CONSENZIENTE E CONCLUSOSI IN MODO NON VOLUTO. VALE ANCHE QUANDO è LA DONNA LA COLPEVOLE ?

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No vuol dire No, è un concetto sacrosanto, anche se, in campo sessuale, mi spiegava un carissimo e bellissimo amico ( non scherzo : purtroppo morto prematuramente a causa di un incidente stradale, in chiesa erano presenti una mezza dozzina di fidanzate, inconsapevoli l'una dell'altra, che lo piangevano inconsolabili),  assai retorico, vista una certa ritualità (manfrina ?) cui a volte le donne ricorrono prima di concedersi.  "Vabbè, se ce dobbiamo ferma' al primo no, meglio che ce facciamo un nodo !"  chiosava coloritamente Massimiliano.
Per spiegare meglio, personalmente posso citare un episodio dove una - bellissima anche lei - ragazza, mentre le sbottonavo la camicetta, mi sussurrava rocamente "ma che fai ?!", ma  al contempo iniziava a sbottonarsi i jeans...
Questo NON per contestare il principio astratto, che ovviamente condivido pienamente, ma per evidenziare che a volte non è facile capire la linea di confine.
Specie quando mancano elementi obiettivi che possano suffragare la parola dei protagonisti.
Se una ragazza si presenta al pronto soccorso coi vestiti strappati, con lividi e/o contusioni varie, per non parlare di altri segni di violenza intima diversamente verificabili, bé c'è poco da parlare.
Ma quando, come nella fattispecie di seguito riportata, tutto questo manca, ecco che le cose si complicano, ancorché comprenda che possa anche accadere che il terrore ti paralizzi, o che, per evitare il peggio, la donna decida che collaborare sia il male minore.
Il problema dell'accertamento della verità però resta.
Nel caso in questione si assiste ad  un contrasto di giudizi tra i giudici del Tribunale del Riesame e la Corte di Cassazione (naturalmente prevale la decisione dei secondi) , con i primi a negare l'esistenza del reato di violenza sessuale in un caso dove si poteva dire evidente la presenza del consenso iniziale al rapporto, che sarebbe venuto meno in relazione alla sua conclusione : l'orgasmo maschile avvenuto dentro la donna senza protezione, contro la volontà di quest'ultima.
Gli ermellini hanno criticato la decisione, sottolineando il principio che il consenso deve essere COSTANTE, e riguardare ogni modalità del rapporto.
Ripeto, bellissimo, ma con la prova come si fa ?
In che modo, per esempio, i giudici di Piazza Cavour hanno accertato che la donna NON volesse quella conclusione ?
Da quanto scritto ci sarebbero delle dichiarazioni in questo senso, ma non si capisce se l'attribuzione delle stesse sia certa, diretta, o de relato, per dire.
Sicuramente, quello che non è accettabile è che la parola della donna, senza riscontri di nessun tipo, possa essere, da sola, elemento di prova, ché di calunnie se ne vedono fin troppe (anche di violenze, per carità, ma nessuno pensa di non sanzionare queste ultime, si chiede solo di accertarle con il giusto scrupolo ).
La vicenda peraltro ha stimolato una riflessione ed una domanda.
La Suprema Corte ha , giustamente a mio avviso, sottolineato l'importanza del consenso sulla conclusione del apporto, stabilendo che, mancando lo stesso , si sia realizzata una violenza nei confronti della donna che non voleva correre il rischio di una gravidanza. Ineccepibile, ché non parliamo di cosa di poco momento.  Ma allora, ecco la domanda, i tanti uomini (un po' scemi dite? in effetti tutti i torti...) che ancora oggi vengono ingannati dalle donne in ordine all'esistenza di una protezione ( pillola, diaframma, spirale) che invece è assente, possono denunciare le partners infingarde ?
Non vi è anche qui un caso nel quale :
«un congiungimento sessuale tra due persone aventi opposte finalità (...) è ben diverso da un qualsiasi rapporto sessuale tra due persone desiderose di averlo e di viverlo congiuntamente»[ ?
e quindi anche nel caso dell'inganno femminile si può prefigurare una situazione per la quale vale l'enunciato giuridico :
è indubbio che il modo di conclusione del rapporto può assumere un significato invasivo tale da incidere sulla iniziale libertà di autodeterminazione del partner», potendo ciò prospettare un comportamento prevaricatorio volto a legare a sé un altro soggetto anche attraverso la prefiguarazione di un’eventuale gravidanza, conseguenza di quella conclusione dell’atto sessuale." ?
Magari gli amici del Penale mi suggeriranno la loro risposta.




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Violenza sessuale: concludere il rapporto con modalità non accettate configura il reato


Cassazione penale, sez. III, sentenza 07/03/2016 n° 9221

Di

Andrea Diamante

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Le costanti precisazioni di questa Corte Suprema sul tema dell’abuso sessuale determinato da un mutamento dell’originario consenso iniziale, fanno sì che anche una conclusione del rapporto sessuale, magari inizialmente voluto (il che non pare essere accaduto nella specie per quanto si osserverà a breve), ma proseguito con modalità sgradite o comunque dal partner, rientri a pieno titolo nel delitto di violenza sessuale.

Così la Suprema Corte, che ha ribadito i principi enucleati in precedenza in tema di consenso delle parti durante il rapporto sessuale affinché non possa ritenersi consumato il delitto di cui all’art. 609 bis cod. pen., dovendosi guardare all’atto sessuale nella sua globalità e in ogni sua componente.

Con la sentenza, la III Sezione ha offerto un’accurata quanto sintetica analisi del delitto di violenza sessuale per ciò che concerne il momento volitivo dell’atto, addivenendo alla conclusione a seguito di una disamina dei principi fondanti che sovrintendono la criminalizzazione della condotta descritta dall’art. 609 bis cod. pen.

La questio juris: il consenso nell'atto conclusivo del rapporto sessuale

La questione si sviluppa a seguito della decisione del Tribunale delle libertà[1] di accogliere il riesame della persona sottoposta alle indagini proposto avverso il provvedimento applicativo della misura cautelare[2] del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi prossimi congiunti.

Il Tribunale aveva ritenuto non sussistere i gravi indizi di colpevolezza necessari per la sottoposizione a misura cautelare con riferimento al reato di violenza sessuale.

Per il giudicante, la condotta dell’indagato non sarebbe stata caratterizzata né da violenza né da costrizione ma, piuttosto, dal consenso della vittima, rintracciabile da tutta una serie di elementi, quali le portiere dell’auto perfettamente apribili dall’interno per cui la ragazza sarebbe potuta uscire dall’auto (luogo di consumazione dell'asserita violenza), gli indumenti intimi e i leggins indossati della ragazza perfettamente integri nonostante la giovane avesse riferito che le fossero stati abbassati con violenza, l’impossibilità di apprezzare alcun segno di violenza esterna sul corpo della ragazza all’atto della vista ginecologica avvenuta il mattino dopo l’episodio.

Il Giudice aveva ritenuto che il momento di conflitto interiore della ragazza fosse riconducibile alla fase finale del rapporto, connotato dall’avvenuta eiaculazione del giovane all’interno della vagina, evento che «aveva in realtà suscitato nella ragazza un senso di rammarico rispetto a quel modo di completamento dell’atto sessuale, sicché il consenso iniziale al rapporto sessuale (…) non poteva considerarsi venuto meno solo per effetto di quella particolare conclusione dell’amplesso».

A ciò addiveniva il giudicante nonostante le parole scambiate dai due soggetti in un momento successivo al congiungimento, in particolare la frase "Mi sei arrivato dentro contro voglia ed io non volevo farlo" contenuta nella memoria del cellulare e la frase "Ora ti ho rovinata" proferita dal ragazzo al termine del rapporto. Frasi, entrambe, riportate nell'ordinanza impugnata.

La censura nomofilattica: l’oggetto di tutela e la declinazione del consenso durante il rapporto sessuale

La Suprema Corte ha ritenuto per nulla condivisibile l’argomentazione del Tribunale, in quanto «non solo manifestamente illogica e contraddittoria, ma anche assai poco rispettosa dei criteri interpretativi enunciati (...) sul tema della violenza sessuale e degli elementi costitutivi del reato nonché sulle modalità e limiti del consenso al rapporto».

Gli Ermellini sono addivenuti a tale conclusione procedendo dall’oggetto giuridico che il Legislatore ha inteso tutelare con il delitto di violenza sessuale, vale a dire la libertà sessuale intesa come «libertà di espressione e di autodeterminazione afferente alla sfera esistenziale della persona – e dunque inviolabile». Le relazioni sessuali «costituiscono uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, rientranti tra i diritti inviolabili tutelabili costituzionalmente».

Tale libertà tuttavia «non è indisponibile, occorrendo una forma di collaborazione reciproca tra soggetti che vengono in relazione (sessuale) tra loro: collaborazione che deve però permanere senza soluzioni di continuità e incertezze comportamentali per l’intera durata del rapporto».

La III Sezione ha individuato come riferimento essenziale per apprezzare la presenza o meno del consenso da parte di uno dei soggetti il rapporto sessuale inteso nella sua globalità, scevro da possibili quanto ipotizzabili frammentazioni, postulante la «presenza necessaria del consenso durante l’intero arco del rapporto sessuale da parte della vittima senza interruzioni ed esitazioni o resistenze di sorta».

Perciò la Corte ha ritenuto per nulla condivisibile «l’affermazione del Tribunale secondo la quale l’avvenuta eiaculazione interna avesse causato nella ragazza soltanto un sorta di rammarico che nulla toglieva alla natura consensuale iniziale del rapporto sessuale, perché così facendo, si frammenta il concetto di atto sessuale che va riguardato in modo globale ed ogni sua componente per essere giudicato non voluto o meno».

Invero, «


Infatti, come spiega il Consesso, «l’eiaculazione interna rappresenta (…) una delle tante modalità di conclusione di un rapporto sessuale che può incidere sulla sua spontaneità e libertà reciproca fino a trasformarlo in atto sessuale contrario alla volontà di uno dei due protagonisti», per nulla riducibile «ad un segmento “neutro” dell’atto sessuale», posto che «può avere conseguenze significative tali da trasformare un rapporto sessuale voluto in uno non voluto»

A nulla vale neppure l’inconsapevolezza di quanto avvenuto da parte soggetto “ricevente” se comunque un tale epilogo dell’atto sessuale non rappresentava quanto da egli voluto.

A tal proposito, la Suprema Corte ha valorizzato anche la contestualizzazione dei fatti nel delitto di violenza sessuale, posto che in ogni caso «un congiungimento sessuale tra due persone aventi opposte finalità (...) è ben diverso da un qualsiasi rapporto sessuale tra due persone desiderose di averlo e di viverlo congiuntamente»[3], dovendosi poi tener conto anche dei rapporti che caratterizzavano i periodi di tempo antecedenti ai fatti da accertare, specie in presenza della volontà di uno dei soggetti di interrompere, come aveva fatto, il legame sentimentale e della volontà dell'altro di ricucire ad ogni costo il rapporto.

I precedenti arresti della Suprema Corte richiamati dalla Sezione III

Inoltre, la Corte tiene a mente il consolidato orientamento nomofilattico secondo cui «sul tema dell’abuso sessuale determinato da un mutamento dell’originario consenso iniziale, fanno sì che anche una conclusione del rapporto sessuale, magari inizialmente voluto ma proseguito con modalità sgradite o comunque non accettate dal partner, rientri a pieno titolo nel delitto di violenza sessuale».

A tal proposito, la III Sezione richiama alcuni suoi precedenti che depongono in tale senso.

La sentenza 4532/2007 ha affermato che integra il reato di violenza sessuale la condotta di colui che prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, originariamente prestato, venga poi meno a causa di un ripensamento ovvero della non condivisione delle forme o delle modalità di consumazione del rapporto, ciò in quanto il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità.

La decisione 39428/2007 invece ha chiarito che il consenso iniziale all'atto sessuale non è sufficiente quando quest'ultimo si trasformi, "in itinere", in atto violento, consumando il rapporto con forme e modalità non volute dalla vittima.

Inoltre, la decisione 6214/1996 prendeva appunto posizione su un caso analogo, in riferimento ad un rapporto sessuale inizialmente consentito ma completato con l’eiaculazione in vagina non condivisa dalla donna

Ciò a riprova che forma oggetto di un orientamento costante la

 

necessità di un consenso scevro di qualsivoglia interruzione durante l’intero rapporto sessuale e che deve involgere tutte le possibili forme e modalità con cui lo stesso si svolge od evolve. Al contrario, venendo meno il consenso anche solo con riferimento all’atto finale di un rapporto caratterizzato ab origine dalla libera partecipazione delle parti, la condotta integra gli elementi tipici del  delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis cod. pen.

Le conseguenze dell’opposta argomentazione proposta dal Tribunale del riesame

Di fatto il Tribunale aveva formulato un pericoloso principio generale, che traeva origine dall'argomento secondo cui l'eiaculazione non voluta all'interno della vagina non svilisce il consenso prestato dalla ragazza a fronte di un rapporto invece inizialmente voluto.

Traslando tale assunto, mutatis mutandis, si potrebbe agevolmente concludere che all'interno del rapporto sessuale possono considerarsi leciti sviluppi o pratiche non volute da uno dei soggetti interessati se la genesi del rapporto sia stato oggetto di deliberato consenso.

Non per nulla, la Corte ha ritenuto la valutazione del Tribunale «assiomatica ed assertiva», oltre che «semplicistica ed errata in diritto».

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