donne_bambino_200Con la sentenza n. 12962 del 26 maggio 2016, depositata in data 22 giugno 2016, la Suprema Corte di Cassazione avalla l’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lettera d) della Legge sulle adozioni inaugurata dal Tribunale per i Minorenni di Roma, nella pronuncia del 30 luglio 2014 e successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Roma, che consente l’adozione co-parentale (cd. step-child adoption) da parte del genitore sociale all’interno delle famiglie omogenitoriali.
Si tratta della prima adozione co-parentale riconosciuta dalla Cassazione e pone un primo, importante, punto fermo nell’intricato dibattitto che negli ultimi mesi ha agitato la questione della genitorialità omosessuale e della possibilità di estendere la step-child adoption, ovvero l’adozione del figliastro, anche alle coppie dello stesso sesso, da poco riconosciute come “famiglia” anche a livello legislativo, essendo del 5 giugno 2016 l’entrata in vigore della legge sulle unioni civili (la cd. Legge Cirinnà). Ancora una volta è stato necessario l’intervento di un giudice per rispondere a una concreta esigenza di tutela e per colmare un vuoto normativo che finiva con il discriminare, prima ancora che i genitori, tutti quei bambini che già vivono e crescono all’interno di famiglie omoaffettive. In Italia, a partire soprattutto dal 2010, anno della prima sentenza della Corte costituzionale in materia di matrimonio same sex (sentenza n. 138), la giurisprudenza ha assunto un ruolo sempre più attivo nella tutela dei diritti fondamentali, ha lentamente metabolizzato le acquisizioni provenienti dall’Europa, soprattutto dalla Corte di Strasburgo, ed è giunta, in taluni casi e se pur con cautela, a renderle effettive sul piano dei diritti, rispondendo ai bisogni che la realtà ad essa poneva. Così, quello stesso istituto che era stato stralciato dalla Legge Cirinnà (articolo 5) per l’incapacità delle forze politiche di leggere la realtà sociale e di trovare un accordo trasversale, viene ora confermato dalla giurisprudenza.
Due gli snodi principali della motivazione degli Ermellini: 1) l’adozione in casi particolari nell’ambito di una coppia omosessuale non determina in astratto un conflitto di interessi tra genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice; 2) tale modello adottivo prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammesso sempreché alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il superiore interesse del minore (best interests of the child). Vediamoli più nel dettaglio.
La Corte esclude, innanzitutto, la sussistenza in astratto di un conflitto di interessi fra il minore e il proprio genitore biologico. La Procura aveva evidenziato la potenzialità di tale conflitto, assumendo che fosse conseguente alla relazione sentimentale che univa la madre legale alla madre sociale e richiedendo pertanto che la minore fosse difesa in giudizio da un curatore speciale. La questione, peraltro senza precedenti specifici, consisteva nello stabilire se, nell’ambito di un rapporto di convivenza di coppia, la domanda proposta da uno dei due partner per l’adozione del figlio dell’altro, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184/1983, determinasse ex se un conflitto di interessi, anche solo potenziale, tra il minore e, in questo caso, la madre legale. Nel ricostruire il quadro normativo italiano, alla luce anche delle fonti internazionali (in primis, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996), la Suprema Corte ha evidenziato che nei casi di conflitto soltanto potenziale spetta al giudice di merito il potere-dovere di verificare in concreto la situazione di incompatibilità di interessi del genitore-rappresentante legale e del minore e che, nel caso di specie, deve ritenersi infondata. Infatti, diversamente da quanto sostenuto dalla Procura Generale, deve escludersi che nel procedimento di adozione in casi particolari – essendo questo mirato a dare riconoscimento giuridico, previo rigoroso accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive e continuative e di natura stabile instaurate con il minore e caratterizzate dall’adempimento di doveri di cura, educazione e assistenza analoghi a quelli genitoriali – possa ravvisarsi una situazione di conflitto di interessi in re ipsa. Il giudice di merito, inoltre, aveva trattato espressamente la questione escludendo la necessità della nomina di un curatore speciale, accertando in concreto l’assenza di incompatibilità d’interessi. Anche perché, pare il caso di sottolinearlo, o si ritiene che sia proprio la relazione sottostante (coppia dello stesso sesso) ad essere potenzialmente dannosa e contrastante con l’interesse del minore – incorrendo, come puntualmente fa notare la Corte di Cassazione, in una valutazione negativa e aprioristica dell’orientamento sessuale dei partner della coppia che ha natura discriminatoria e è non sostenuta da alcuna evidenza scientifica (si veda, Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 8 novembre 2012 – 11 gennaio 2013, n. 601) – oppure si esclude la configurabilità in via generale e astratta di una situazione di conflitto di interessi nell’ambito del paradigma adottivo.
Nella seconda parte della sentenza, la Corte di Cassazione affronta invece la questione dell’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lettera d), affermando che «la constatata impossibilità di affidamento preadottivo» deve essere intesa come impossibilità anche giuridica, e non solo di fatto. Infatti, l’esistenza della madre biologica (ovviamente attiva nell’accudimento della minore) rende giuridicamente impossibile la dichiarazione di abbandono e l’affidamento preadottivo e dunque pienamente applicabile l’ipotesi di cui alla lettera d), fra l’altro azionabile anche da un singolo, come la ricorrente madre “sociale”. Una soluzione, questa, che appare pienamente conforme sia alla lettera che alla ratio della legge, la cui interpretazione restrittiva ostacolerebbe in una molteplicità di situazioni – ivi compresa quella de qua – il perseguimento del massimo benessere possibile del minore (leggasi best interests of the child) che, come non mancano di ricordare sia il giudice di merito, sia il giudice di legittimità, deve essere sempre il principio guida in ogni decisione che riguarda il bambino. Alla luce del testo e della ratio della disposizione, conclude la Suprema Corte, l’interpretazione «restrittiva» invocata dalla Procura Generale e fondata sulla qualificazione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» come mera «impossibilità di fatto» non può essere accolta. Vero è che tale norma ha avuto in passato un’interpretazione restrittiva, secondo la quale si richiederebbe un’impossibilità solo “di fatto”, riferendosi inevitabilmente solo a quei minori abbandonati (o in stato di semi-abbandono) per i quali, per esempio per ragioni di età o di salute, non sia possibile reperire una coppia aspirante all’adozione legittimante. Tuttavia, tale interpretazione restrittiva è stata poi oggetto di ripensamento da parte della giurisprudenza (cfr., Tribunale per i Minorenni di Milano, sentenza n. 626/2007; Corte d’Appello di Firenze, sentenza 1274/2012; cfr., anche, Corte Cost. n. 198/1986). In particolare, l’adozione sarebbe possibile anche nel caso in cui l’impossibilità di affidamento preadottivo sia solo “di diritto”, id est nel caso in cui l’affidamento preadottivo sia precluso dal fatto che il minore non si trova in stato di abbandono essendo presente un genitore che dello stesso si occupa in modo adeguato. Soltanto in questo modo diventa possibile tutelare l’interesse del minore (anche non in stato di abbandono) al riconoscimento giuridico di rapporti di genitorialità più compiuti e completi e alla stabilizzazione dei legami affettivi che, di fatto, sono per lui importanti punti di riferimento (cfr., Corte Cost., sentenza del 7 ottobre 1999, n. 383, secondo cui la ratio dell’effettiva realizzazione degli interessi del minore consente l’adozione per «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» anche quando i minori «non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili»).
Secondo la Suprema Corte, tale interpretazione più estensiva è pienamente conforme alla littera legis, che prevede come unica condizione per l’adozione di cui all’art. 44, co. 1, lettera d) l’impossibilità dell’affidamento preadottivo e non la sussistenza di una situazione di abbandono (richiesta invece per l’adozione piena e legittimante). Essa altresì consente di realizzare l’interesse superiore del minore in linea con la ratio legis, in quanto il legislatore prevedendo la lettera d) come clausola residuale per tutti quei casi speciali non inquadrabili nella disciplina della adozione legittimante e non rientranti nelle altre e più specifiche ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 44, ha voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e le persone che già si prendono cura di lui, continuativamente e stabilmente, al fine di realizzare effettivamente gli interessi del minore. Dunque, coerentemente con il sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica e adottiva attualmente vigente, deve ritenersi sufficiente l’impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo, lasciando al giudice la verifica delle condizioni di cui all’art. 44 e se l’adozione realizza in concreto il superiore interesse del minore (leggasi il massimo benessere possibile per quel determinato minore).
Infine, merita segnalare il fruttuoso dialogo instaurato dalla Suprema Corte con la Corte europea per i diritti dell’uomo e l’ampliamento dell’orizzonte interpretativo alla ricerca di un trend costituzionale comune ai numerosi Paesi che compongono il Consiglio d’Europa. In effetti, la progressiva intensificazione dei canali di interazione tra i diversi ordinamenti, tra le diverse Carte fondamentali dei diritti e tra i giudici delle Corti supreme nazionali e sovranazionali, un dialogo indotto dall’esigenza di dare esecuzione a principi e norme di diritto internazionale o sovranazionale ma anche dall’osmosi tra culture giuridiche la cui vocazione transfrontaliera e multiculturale si è fatta sempre più concreta, ci consegna un’immagine del giudice come “filtro principale” tra norma e realtà sociale, area di mediazione fondamentale tra il sistema giuridico e il sistema sociale all’interno del quale si sviluppano dinamiche e aspettative interiorizzate dai singoli, come quelle che stanno alla base delle relazioni affettive secondo la portata dei profondi cambiamenti che le stanno caratterizzando. Così, da un lato, troviamo l’affermazione del divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e, dall’altra, troviamo l’ineludibile centralità del principio dei best interests of the child, il criterio-guida che echeggia sempre nelle motivazioni dei giudici che riguardano il minore. Il sistema della Convenzione europea ha costituito uno straordinario volano per il riconoscimento dei diritti dei bambini perché consiglia o impone un rights-based approach anche nei confronti dei minori di età, i quali in quanto persone sono destinatari di tutti i diritti e le libertà in essa enunciati. Negli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte europea in materia di famiglia e di diritti dei minori è diventata sempre più copiosa e articolata ed ha affrontato anche alcune questioni attinenti alla genitorialità omosessuale. La stessa Cassazione, nella sentenza in commento, richiama il noto caso X & Altri v. Austria del 2013 (ricorso n. 19010/07), in cui la Corte europea si era confrontata direttamente con il problema dell’idoneità della famiglia formata da persone dello stesso sesso ad accogliere e crescere un bambino. In quell’occasione la Corte, dopo aver ribadito che anche le unioni omosessuali godono del diritto alla vita familiare (art. 8 CEDU), aveva chiarito espressamente che le coppie dello stesso sesso non possono essere ritenute a priori inidonee a crescere un figlio e aveva condannato l’Austria per non aver garantito alle coppie omosessuali la medesima possibilità di accedere alla second-parent adoption (o step-child adoption) così come riconosciuto delle coppie non coniugate eterosessuali. Il margine di apprezzamento degli Stati è dunque limitato e occorrono giustificazioni serie e fondate per operare una disparità di trattamento tra coppie di fatto eterosessuali e omosessuali: Infatti, prosegue la Corte, «in assenza di argomenti, di studi scientifici o di altri elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omogenitoriali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente addotta come giustificazione alla disparità di trattamento tra coppie conviventi. Ne consegue che l’obiettivo della tutela della cosiddetta famiglia tradizionale, per quanto legittimo possa essere, non può essere perseguito andando a discapito della garanzia minima di tutela delle altre tipologie di famiglia, riconosciute e protette dall’art. 8 CEDU, secondo l’interpretazione evolutiva che ne è stata data dalla Corte)
La non discriminazione viene allora in gioco non soltanto nei confronti dei genitori e del loro orientamento sessuale ma, anche e soprattutto, nei confronti dei minori che, per il solo fatto di vivere e crescere all’interno di una famiglia omogenitoriale subiscono una disparità di trattamento, trovandosi in condizioni di precarietà, rispetto ai figli di coppie eterosessuali, cui sono riconosciuti pieni diritti e massima tutela. Ad essere leso è il diritto di ciascun minore alla stabilità dei rapporti affettivi e familiari già formati. Il passo da una situazione di massima protezione ad una situazione di massima indeterminatezza è breve, anzi brevissimo. La centralità del minore, quindi, va affermata per ogni tipo di coppia genitoriale, sia eterosessuale sia dello stesso sesso, legami nei quali la vita del nucleo familiare comunque va strutturata con modalità che garantiscano prioritariamente la salute, il benessere, l’educazione e la crescita, oltre che ovviamente il diritto alla felicità del bambino.
Si deve infine rilevare come sia stata disattesa dal primo Presidente della Suprema Corte la richiesta della Procura Generale di portare la questione direttamente avanti alle Sezioni unite. Come noto l’art. 374 c.p.c. consente al primo Presidente di disporre che la Corte si pronunci a Sezioni unite soltanto se la questione di diritto sia stata decisa in senso difforme dalle Sezioni semplici e se si tratti di «questione di massima di particolare importanza». Nella specie sul punto non si sono ancora mai pronunziate le Sezioni semplici e sarebbe stato del tutto irrituale la decisione di rimettere la questione alle Sezioni unite. Inoltre, considerando l’orientamento giurisprudenziale delle corti di merito (si vedano, tra gli altri, Tribunale per i minorenni di Roma, sentenze del 30 luglio 2014 e del 23 dicembre 2015 (pubblicata il 21 marzo 2016); Corte d’Appello di Torino, sentenza del 27 maggio 2016) non sussisteva e non sussiste, dunque, allo stato neppure quel rischio di tutela giurisdizionale «a macchia di leopardo» paventato dalla Procura Generale.