mercoledì 6 luglio 2016

CARO PANEBIANCO, E' LA DEMOCRAZIA IN GENERE CHE CI STA ANDANDO STRETTA

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Mi capita di rado di non essere d'accordo con il bravissimo Angelo Panebianco, politologo di fama, da decadi penna principe del Corriere della Sera. E le rare volte che succede, non è mai un disaccordo totale. In realtà, seguo sempre il filo logico del professore, e ne condivido molti passaggi anche le poche volte in cui poi non approvo le conclusioni.
Ultimamente mi sta succedendo di più.
Sono in linea con Panebianco in tema di Europa (non "vediamo" gli Stati Uniti Europei, ci accontenteremmo di una confederazione che mette in comune pochi, importati punti, e non intervenendo sull'universo mondo, con gli scarsi risultati che è dato vedere), con la necessità di dotarsi, come Nazione e come Europa, di un serio e credibile apparato di difesa (intelligence e militare) di fronte alle nuove gravi sfide che provengono dall'estremismo islamico, sulla preoccupazione per certo ipertrofismo giudiziario.
Meno in sintonia sul renzismo, e quindi sull' Italicum, il referendum costituzionale.
Oggi leggo il suo intervento post brexit e la sua distinzione tra democrazia diretta - disapprovata - e rappresentativa, lodata.
Come detto, è facile seguire il flusso logico di Panebianco, e quindi concordare sulle caratteristiche descritte dei due sistemi.
Meno, in questa epoca, concludere positivamente come fa lui sui benefici della democrazia rappresentativa, vista un po' troppo come una cambiale in bianco che gli elettori consegnano ai rappresentanti scelti (quando ? che sono scelti dai partiti !) , con la sola possibilità di revocarla a fine legislatura.
Io sarei d'accordo se il panorama politico italiano avesse protagonisti tipo Einaudi, De Gasperi, De Nicola, Malagodi, il mitico, per noi avvocati, Calamandrei, ma parliamo di preistoria !
Di questi tempi sento non pochi ex ( ? ) comunisti rimpiangere la sagacia politica, per quanto cinica, di un Andreotti , per non parlare della sublimazione di un Aldo Moro o di un Fanfani. Craxi è rivalutato da tanti, che al netto del discorso finanziamento illecito ai partiti, resta forse l'ultimo uomo politico italiano con lo spessore di uno statista.  I 20 anni del duo Prodi- Berlusconi non sono stati granché, e il lustro successivo alla "liberazione" dell'Italia dal male assoluto (il Cavaliere) non è che abbia portato il rinascimento tanto invocato.
In compenso, si sono moltiplicate le condanne per i ladri di polli, quelli che gonfiano i rimborsi spese, mettendo tra i costi della politica preservativi e gadget di varia natura.
Vogliamo parlare degli "onesti" (fino a che stanno fuori dalle stanze dove si decide) ortotteri ? Scelti sul web col clic di qualche centinaio di amici e parenti ?
Caro Panebianco, io non sono così sicuro che questa gente, eletta, ne sappia poi tanto di più rispetto al poco degli elettori.
Questo in generale. Nel caso particolare della Brexit, la contestazione è più forte e si estende a quanto scritto ieri da Polito, che lamentava che alla fine il 36% dei votanti hanno deciso per tutti, nonostante che intere categorie, intellettuali e giovani in prima fila, fossero contrari al Leave.
L'assunto sostanziale è che gli inglesi abbiano votato senza sapere cosa facessero.
E questo sicuramente sarà stato, visto che lo dicono tutti !, però osserverei :
1) Per MESI tutti i media inglesi, e , non quotidianamente ma con discreta frequenza, internazionali, hanno parlato e scritto di questo referendum, e delle sue conseguenze.
2) I partiti e i deputati inglesi hanno preso posizione, spiegando le rispettive ragioni.
3) L'affluenza alle urne è stato superiore al 70%, buono in assoluto ed elevatissimo rispetto alle abitudini inglesi. Sicuri che stavolta fossero così disinformati ?
4) Storicamente, gli inglesi non sono mai stati degli euroentusiasti, tanto è vero che non hanno l'euro ( e finora questo per loro è stato un VANTAGGIO) e continuano ad avere una Banca Nazionale vera.  La cosa non a caso è diversa in Scozia e Irlanda del Nord, dove il sentimento di appartenenza british è scarsino.
5) La narrazione dei giovani puniti dalla Brexit va un atitmo corretta dai numeri. E' vero che la larga maggioranza degli under 25 che sono andati a votare si è espressa per il Remain, ma è altrettanto vero che ancor di più sono quelli che sono rimasti a casa, mostrando indifferenza all'esito di quello che ovunque era descritto come la decisione più importante nella storia della GB post imperiale. Alla fine della fiere UNO su DIECI è il numero dei giovani andati a votare... Insomma Polito, pochini per parlare e scrivere in nome della "gioventù" d'oltre manica.
6) Infine, non mi pare che i rappresentanti, cioè quelli che, secondo Panebianco, sarebbe meglio detenessero il monopolio di decisioni siffatte, si siano mostrati con le idee molto più coerenti. Sarebbe per esempio bastato che i laburisti avessero votati compatti per il Remain perché questo vincesse, ma così non è stato.
Insomma, la sensazione è che l'Europa, in questo momento storico, dovrebbe essere preservata in generale dal voto di chiunque : eletti ed elettori, perché altrimenti la bocciatura è probabile.
E allora il problema torna all'origine : è la democrazia (rappresentativa o diretta che sia ) che ci sta andando stretta.

p.s.
Inutile dire che, tra le cose che condivido pienamente, ci sono le ironiche considerazioni sugli intellettuali alla piastra, quelli per i quali il popolo è bue o saggio a seconda se vota come vogliono loro...


Il Corriere della Sera - Digital Edition

Le scelte del popolo sovrano

di Angelo Panebianco

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Lo choc di Brexit ha innescato ovunque furiose discussioni sul valore e il significato della democrazia. Ci si è chiesti se sia opportuno affidare al «popolo» le decisioni più delicate. La discussione è divampata anche da noi. Influenzata però dallo stato di precarietà e confusione in cui da sempre versano in Italia le idee democratiche. Ricordiamoci che questo è il Paese nel quale fior di opinionisti sono sempre stati pronti a lodare il popolo, ad esaltarne la maturità democratica, quando esso votava per la loro parte politica e, viceversa, ad accusarlo di barbarie, di essere preda di nefande (e stupefacenti) «mutazioni antropologiche» quando non lo faceva.

La discussione innescata da Brexit su valore e limiti della democrazia è utile ma solo a patto di sgombrare il campo da un equivoco. Quelli che si raccontano che il popolo è troppo bue e ignorante per poter decidere alcunché di serio (sottintendendo che loro non fanno parte del suddetto popolo), sono i peggiori, i meno affidabili di tutti. Del resto, con le sciocchezze dette e scritte dai colti, veri o presunti, sulle faccende pubbliche in due secoli di storia della democrazia occidentale ci si potrebbe riempire la Biblioteca del Congresso (che è uno spazio piuttosto ampio).

Il tema dunque è: ha senso fare decidere il «popolo» (plurilaureati compresi) sulle faccende pubbliche? Non sarebbe meglio, almeno in certi frangenti, mettere da parte l’ambiguo mito della sovranità popolare?

Per dare ordine a una discussione piuttosto confusa bisogna distinguere fra i due significati della parola «democrazia». Stiamo parlando della democrazia rappresentativa (l’elezione di rappresentanti a cui vengono affidate le decisioni collettive) oppure della democrazia diretta (sono gli elettori che prendono le decisioni collettive)? Democrazia rappresentativa e democrazia diretta sono cose diversissime, modi antitetici di governare la cosa pubblica. Con l’eccezione della piccola Svizzera, con la sua particolare storia, in nessun Paese occidentale la democrazia diretta ha un peso e un ruolo paragonabili a quello della democrazia rappresentativa.

La democrazia rappresentativa, al di là del mito, è il miglior meccanismo per contare le teste anziché tagliarle, per assicurare ricambi pacifici nelle élite di governo. È uno strumento, forse insuperabile, di risoluzione non violenta dei conflitti politici. Non richiede da parte del cittadino-elettore particolari competenze o conoscenze. Sono sufficienti il suo giudizio e la sua percezione, giusta o sbagliata che sia, che i governanti in carica meritino una riconferma o, quanto meno, una prova d’appello, oppure che occorra sostituirli senza indugi con qualcun altro il quale poi, a sua volta, dovrà essere messo alla prova. Il popolo non decide sulle questioni pubbliche, fa una scelta fra coloro che, dicendo il vero oppure millantando, asseriscono di sapere prendere decisioni sagge.

Nonostante coloro che hanno sempre confuso la democrazia col socialismo, la democrazia rappresentativa non richiede uguaglianza di reddito o di livelli di istruzione. Richiede solo uguaglianza giuridica, uguaglianza di fronte alla legge.

Impagabile strumento di risoluzione pacifica dei conflitti, la democrazia rappresentativa ha anche un’altra virtù: è il migliore habitat per la protezione delle libertà personali. In teoria, quelle libertà potrebbero anche essere assicurate, entro certi limiti, da un dispotismo illuminato e, inoltre, le democrazie corrono sempre il rischio di degenerare, di diventare democrazie autoritarie. Tuttavia, l’esperienza storica mostra che la democrazia rappresentativa è, in genere, il miglior baluardo a difesa di quelle libertà.

La democrazia diretta è un’altra cosa. Qui agli elettori è richiesto un minimo di conoscenza delle poste in gioco. Ma ciò li consegna mani e piedi ai vari gruppi di élite che hanno il potere di trasmettere tali conoscenze. Ad esempio, il fatto che i laburisti britannici abbiano fatto una campagna reticente e ambigua (e in vari luoghi del Paese, probabilmente, nessuna campagna) in occasione del referendum, ha comportato che certi elettori — più facilmente raggiungibili dai laburisti che dai conservatori —, in alcune zone depresse della Gran Bretagna, scegliessero Brexit senza neppure sapere quale fosse l’entità dei finanziamenti europei a sostegno di quelle zone depresse. Finanziamenti che, ovviamente, non arriveranno più. Forse è effettivamente saggia la Costituzione italiana che vieta referendum su trattati internazionali, leggi tributarie e di bilancio, amnistia e indulto.

Ed è anche evidente che le varie utopie circolanti sulla «democrazia del web», la democrazia diretta in salsa informatica, non prefigurano chissà quali nuovi luminosi traguardi democratici ma incubi totalitari ove il massimo di manipolazione del «popolo» da parte di ristrettissimi gruppi si accompagnerebbe al massimo di retorica sull’ormai raggiunto obiettivo della «vera democrazia».

Non è contrario alla deontologia democratica sostenere che Cameron abbia fatto un errore indicendo il referendum sull’Unione (anche se forse la situazione del suo partito era tale che egli non aveva scelta). La democrazia diretta non è la migliore risposta a problemi complessi, anche se può essere un strumento assai utile quando si tratta di decidere su temi relativamente circoscritti (come fu il caso del divorzio in Italia). Sfortunatamente, il ricorso alla democrazia diretta per fronteggiare problemi complessi segnala spesso un fallimento della democrazia rappresentativa: è l’espediente a cui certi governanti ricorrono quando il sistema rappresentativo non riesce a decidere. Un espediente che a volte ha successo ma a volte aggrava il male. Naturalmente, vanno esclusi da questo discorso i referendum costituzionali. In questo caso, «l’appello al popolo», come insegna la dottrina costituzionalista, serve a dare la più ampia legittimazione alla nuova costituzione.

Non si devono commettere due errori. Pensare che siccome solo in pochi, per ragioni di mestiere, sono addentro ai problemi, hanno sufficienti conoscenze per farsi un quadro abbastanza chiaro (ma mai completamente chiaro) delle varie poste in gioco, allora tanto vale lasciarli decidere senza neppure controlli ex post . Il secondo errore, se e quando la democrazia diretta dà esiti che riteniamo insoddisfacenti, consiste nel gettare discredito anche sulla preziosa democrazia rappresentativa.

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