giovedì 15 dicembre 2016

COL NO AL PLEBISCITO RENZIANO, FINE DEL LEADERISMO DELLA SECONDA REPUBBLICA

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Interessante, anche perché originale, l'analisi di Antonio Polito, sul Corsera, con la quale il giornalista spiega come sia terminata la stagione propria della seconda repubblica, basata,  e mi sembra che si possa concordare ancorché magari con qualche riserva (forse le conclusioni sono troppo drastiche, per esempio), su tre pilastri fondamentali :
1) Leaderismo
2) Bipolarismo, con due coalizioni eterogenee ma tenute insieme dall'obiettivo di battere l'avversario
3) Potere predominante della TV
Il tramonto di Berlusconi, il ritiro di Prodi (che leader poi non lo è stato mai) e la rottamazione di D'Alema sembravano fattori compensati dal sorgere del nuovo astro : Matteo Renzi. Ebbene, in nemmeno 3 anni la stessa si è molto appannata. Grillo, a sua volta, è il capo non più indiscusso dei 5 Stelle, con frequenti tentazioni di passi indietro o almeno di lato.
Quanto al bipolarismo, bé con l'avvento dei grillini, la tripolarizzazione è un fatto al momento certo e consolidato.
Infine, l'affermazione del web e dei social (twitter, Facebook, Instagram) , la crisi irreversibile - speriamo - dei talk show, e la diffidenza, ben fondata, sull'affidabilità della RAI, cd. "servizio pubblico", e delle altre tv generaliste (gode di più stima sky, che però è a pagamento e quindi vista da un pubblico più ridotto), fa sì che lo strapotere delle tv come strumento di condizionamento delle opinioni e del consenso sia un altro fattore superato.
Fatte queste considerazioni, come detto condivisibili, Polito si lancia in una riflessione ulteriore ed originale : il PD come creatura sorta in funzione della seconda repubblica. In effetti ricordo Veltroni quando parlava di partito a "vocazione maggioritaria".
La profezia, ipotetica naturalmente, è che la fine delle basi fondanti di quella stagione come hanno già segnato il disfacimento del PDL possano portare la stessa sorte al PD.
Forse non sarebbe un male.
Io capisco che la sinistra piddina, e quindi i D'Alema, i Bersani, i Cuperlo, si sentono degli esiliati in patria. Per loro il PD era il PDS senza S, o i DS rivisitati. Invece sono stati espropriati, sorprendentemente va detto, dagli ex popolari e poi margherite, e sia Renzi che Gentiloni sono stati dei Rutelli boys.
Un po' una rivincita per l'uomo che con Veltroni ideò la nascita di una "terza cosa", appunto il partito democratico, per poi uscirne avendo visto i compagni impossessarsene.
Gli ultimi quattro anni, con Renzi al Nazareno e sia Matteo che Paolo a Palazzo Chigi, sono una sorta di nemesi.




Il Corriere della Sera - Digital Edition

La stagione che è finita

di Antonio Polito

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Rifiutandosi di entrare nella Terra Promessa da Renzi, gli elettori hanno forse scritto la parola fine sulla Seconda Repubblica. Il referendum costituzionale può assumere il valore storico che ebbe quello sul divorzio nel 1974: la chiusura di un’era. Per la verità gli italiani ci avevano provato già nelle elezioni politiche del 2013, mandando in frantumi il bipolarismo. Ma Renzi si inserì abilmente e velocemente nel vuoto di potere.

Così illuse se stesso e tutti noi che fosse possibile riesumare, stavolta con un volto più giovane, la salma di un sistema politico che aveva fatto il suo tempo.

La Seconda Repubblica ha avuto infatti quattro tratti distintivi: era fondata sul leaderismo, tenuta in piedi dal maggioritario, ingessata in due coalizioni, nutrita dallo strapotere della tv. Nessuno di questi pilastri ha resistito allo tsunami della crisi.

Il primo comandamento dell’epoca politica iniziata nel 1994 era il leaderismo, e diceva che il capo della coalizione di maggioranza, il cui nome venne scritto sulla scheda elettorale, è automaticamente il capo del governo, perché quest’ultimo non si elegge più nel Parlamento ma direttamente nelle urne. Così è stato tre volte con Berlusconi e due volte con Prodi. Dopo la pausa di Monti e Letta, Renzi ha tentato di ripristinare il dogma pur senza passare per il voto popolare. È finita invece come ai tempi della Dc: Gentiloni a Palazzo Chigi nel ruolo di un Goria, un governo balneare a Natale che tiene il posto al prossimo, mentre il potere e la lotta per acquisirlo si spostano nel partito.

Il secondo comandamento era il maggioritario, condizione essenziale del leaderismo. Ma il maggioritario non esiste più nella versione del Porcellum, perché lo ha raso al suolo la Consulta per la sua incostituzionalità; non esiste ancora nella versione dell’Italicum, né forse esisterà mai perché ripudiato già da tutti e sub iudice; e non facilmente potrà risorgere nella versione del Mattarellum, che per tornare avrebbe bisogno di coalizioni che non ci sono più.

Erano appunto le coalizioni il terzo comandamento: tutti insieme contro il nemico comune. Ma da quando ci sono su piazza i Cinque Stelle il nemico non è più comune per nessuno, ciascuno ne ha almeno due, e dunque ognuno per sé. È per questo che la prossima legge elettorale rischia di essere, in ogni caso, più proporzionale di tutte le precedenti. È per questo che il centrodestra è diviso in tre tronconi al momento inconciliabili. Ed è per questo che il Pd è rimasto solo, senza uno straccio di alleati.

Infine il quarto comandamento: se occupi le tv e sei un buon comunicatore, vinci le elezioni. Con Berlusconi funzionò, anche perché lui era padrone della materia. Con Renzi ha funzionato per un po’. Al referendum ha invece funzionato a rovescio. L’occupazione militare delle tv da parte del premier ha generato fastidio, intolleranza e rigetto. Mentre i social hanno dato il mood alla campagna, definendo l’umore del Paese e alimentandolo. Cosa analoga a quella che è successa in America, dove la vittoria dell’outsider Trump è stata cucinata sul web.
Tutto questo ha conseguenze politiche immediate per il Pd. Quel partito è infatti nato nella e per la Seconda Repubblica, si è modellato su di essa per competere con Berlusconi che l’aveva inventata, e perfino il suo statuto e le sue regole interne (lo ha notato ieri acutamente Francesco Cundari sull’ Unità ) sono costruite sul titanismo autosufficiente del leader, una specie di «berlusconismo democratico», in cui il partito serve solo come strumento elettorale del capo.
Ora che l’habitat naturale in cui era nato il Pd si è dissolto, suona stanca, se non patetica, l’idea che si possa ricominciare daccapo nel solito modo. Primarie e camper sono, prima di tutto nell’immaginario collettivo, come mobili di modernariato: eleganti e carini, ma vecchi. Radicamento sociale e social, gioco di squadra invece di idolatria del capo, freschezza di idee e proposte per il futuro al posto di difesa puntigliosa di mille giorni di governo che sono ormai passati e anche elettoralmente bocciati, richiedono una trasformazione radicale del Pd che francamente non è alle viste. Attenzione, perché nel falò della Seconda Repubblica è già sparito il Pdl, non è affatto detto che il Pd ce la faccia. Certo non ce la farà se continua a considerare la sconfitta referendaria come una specie di accidente, di evento atmosferico disgraziato che ha solo momentaneamente fermato l’irresistibile ascesa di Renzi

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