Nemmeno Galli della Loggia ha apprezzato la piazzata di Renzi riguardo Visco e Bankitalia.
Il professore, opinionista e politologo di punta del Corriere della Sera, in passato convinto sostenitore dell'ex premier , da tempo vede e descrive un renzino smarrito, stordito dal ko subito in occasione del referendum istituzionale, con relativa perdita dell'amato ufficio di Palazzo Chigi.
L' attacco del tutto sbracato nei modi niente di meno che al titolare di Bankitalia è la conferma di un Matteo "andato ai pazzi", come sussurrano i suoi stessi seguaci.
Ho già detto che la critica e le domande sul ruolo della Banca centrale in occasione della crisi bancaria italiana, sono più che legittime, In fondo, da quando la BCE ha tolto alle banche nazionali il ruolo a suo tempo fondamentale del controllo del flusso monetario, che resta di importante alle seconde se non sorvegliare i vari istituti di credito ? E quindi un periodo che ha visto i disastri di Monte dei Paschi, in primis, e poi di banche minori ma numerose, tra cui anche l'Etruria, non depone bene per il presidio di via Nazionale.
Però queste considerazioni il leader del partito di maggioranza, e fino a ieri premier del paese, le deve fare nei modi e nelle sedi opportuni. Non nel modo scomposto scelto da Renzi.
Sono certo che lui le sue rimostranze le abbia fatte nei colloqui col Presidente della Repubblica e con Gentiloni, suo successore a Palazzo Chigi, ma non è che siccome il suo punto di vista non è passato, poi lui si sente libero di far volare gli stracci.
Qualcuno dice che è preoccupato di lasciare ai 5 Stelle tutto lo spazio protestatario.
E come potrebbe essere diversamente, visto che guida il partito che, complice il premio di maggioranza del porcellum, occupa da 5 anni Montecitorio e comunque ipoteca il Senato ? A quale partito appartengono gli ultimi tre presidenti del Consiglio ?
Se sul serio Renzino pensa di fare campagna elettorale come se fosse ancora l'outsider del 2013, veramente vuol dire che la capa non gli funziona più.
L’ERRORE DI RENZI
bankitalia e l’autogol politico
di Ernesto Galli della Loggia
Sono due le questioni, entrambe di merito, che ha posto la
mozione con la quale, su ordine di Matteo Renzi, il Partito democratico ha in
pratica sfiduciato il governatore della Banca d’Italia. Una è da giorni
ampiamente analizzata, dissezionata e commentata: e riguarda, per l’appunto, la
decisione del segretario del Pd di mettere spregiudicatamente in gioco sul
tavolo traballante delle sue fortune elettorali l’immagine di un’istituzione
incaricata di funzioni importanti e delicate come la Banca d’Italia.
Una mossa che si commenta da sola, e che peraltro sta
ritornando come un boomerang addosso al suo improvvido ideatore, a ennesima
riconferma di come la sconfitta sul referendum del 4 dicembre sembri davvero —
come si dice proprio dalle sue parti — aver «mandato ai pazzi» l’ex premier, il
quale da quel giorno non riesce più a riacquistare lucidità strategica né
capacità di consenso.
Ma dietro tale questione se ne delinea una seconda. E cioè
la questione del modo di essere e di funzionare del meccanismo di decisione
nell’ambito delle istituzioni politiche del nostro Paese. In altre parole la
questione di cosa sia e come funzioni il potere italiano; di come prenda le sue
decisioni. In che modo, ad esempio, vengono nominati i vertici dei maggiori
enti ed apparati pubblici?
L’Italia, si sa, non ha la fortuna di essere guidata da un
esecutivo forte e stabile nel quadro di una efficace divisione dei poteri.
La nostra Costituzione — complice poi un dna proporzionalistico
che risale alle origini ciellenistiche della Repubblica, e grazie anche agli
infelici regolamenti delle Camere — ha consegnato il Paese a un regime
parlamentaristico-partitico, che essa ha cercato poi di controbilanciare con
l’innesto di una figura di presidente della Repubblica dotato di poteri assai
ampi, più o meno analoghi a quelli a suo tempo attribuiti al re dallo Statuto.
Il risultato finale è che le decisioni importanti non
possono mai essere prese da un unico potere, anche quando formalmente gli
spetterebbero, bensì devono necessariamente passare attraverso un diverso e
complesso meccanismo: quello della «concertazione». Che in pratica funziona
così: per un periodo imprecisato ma raramente breve di tempo (decidere in
Italia non è mai questione di ore, quasi sempre neppure di giorni: perlopiù si
va avanti a «parlarne» per mesi) due, tre, o anche più poteri — come minimo
segretario/segretari del o dei partiti di maggioranza, presidenza del
Consiglio, uno o più ministri, presidenza della Repubblica — interloquiscono
fra loro e attraverso un contorto gioco di indicazioni, di veti, di scambi, di
compensazioni, di promesse a buon rendere, alla fine si mettono d’accordo sul
testo di un provvedimento o su un nome. Anche la designazione di una persona
capace e meritevole di ogni stima come Ignazio Visco è avvenuta inevitabilmente
in questo modo.
Inutile sottolineare le due più ovvie conseguenze negative
di un metodo del genere. Innanzi tutto la sua fin troppo facile assimilabilità
al «mercato delle vacche», con relativo discredito della politica a maggior
vantaggio del qualunquismo di ogni genere e misura; e poi la qualità in genere
mediocre di scelte che perlopiù avvengono inevitabilmente all’insegna del
compromesso.
In realtà la «concertazione» corrisponde al riconoscimento
da ciò che è nelle cose: la frantumazione istituzionale del potere italiano. In
Italia tutta l’attività di direzione politica (e non solo) è segmentata e
dominata dalla «concertazione», spesso trasfigurata idealmente nella figura
dell’«etichetta istituzionale». La quale vuol dire quasi sempre questo: non
fare o non decidere alcunché senza essersi sincerati che siano d’accordo tutti
coloro che a torto o a ragione potrebbero avere qualcosa a ridire. Cioè, in
pratica, non decidere nulla che dia fastidio a qualcuno.
Con la mozione di sfiducia verso Visco Matteo Renzi ha
cercato in un certo senso di fermare il tempo: di ritornare alle proprie
origini di outsider rimarcando la sua estraneità ai modi d’essere del potere
italiano e la sua volontà di contrapporsi ad esso e alla sua «etichetta». Lo ha
fatto quasi mimando il ruolo di rottura che ormai da tempo svolge il Movimento
dei 5 Stelle; ma non comprendendo che per lui tale ruolo è ormai impossibile.
Il tempo non passa invano, infatti.
Non si può recitare la parte dell’ outsider
, non ci si può chiamare così platealmente fuori, quando da anni si è il capo
del principale partito della maggioranza, quando per anni si è stati al governo
frequentando il potere in tutti i suoi saloni, stanze e sottoscala.
Frequentando il quale Renzi avrebbe dovuto apprendere anche, tra l’altro, che
pur in un Paese sbrindellato e maleducato come è ormai il nostro vi sono
tuttavia delle istituzioni, degli ambiti operativi, delle sfere pubbliche, non
già sottratte per principio alla critica politica, sempre lecita, ma
indisponibili a essere trascinati nella polemica estemporanea e nella
strumentalizzazione, che sono cose ben diverse.
Voler sanare la patologia del potere italiano, rappresentata
tra l’altro dalla «concertazione» e dal suo permanente sottinteso consociativo,
è in sé una cosa sacrosanta. E mi pare ovvio che in particolare questo debba
essere l’obiettivo di un esponente politico come Matteo Renzi che mira a una
forte leadership personale sostenuta da un’adeguato progetto di riforma
istituzionale.
Ma sbaglia di grosso, e anzi segna solo un autogol, se egli
pensa di poterlo fare usando la stizza, cedendo a un moto di rabbia o, peggio,
di rivalsa elettoralistica. La verità è che dopo il 4 dicembre il segretario
del Pd è ancora alla ricerca di una nuova linea politica in armonia con la sua
ispirazione originaria così come di una nuova e più convincente cifra
stilistica personale. Ma prendersela con la Banca d’Italia non lo aiuta di certo a trovare né
l’una né l’altra.
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