Panebianco torna in un suo editoriale a segnalare il triste vento statalista che soffia impetuosamente nelle valli italiche.
L'Eolo maggiore è il partito dei 5 Stelle, ma in realtà il virus velenoso è diffuso ovunque.
E da sempre, aggiungerei io. Se per qualche lustro può essere andato di moda riempirsi la bocca con le parole "Liberale" e "Liberalismo", di fatto l'essenza tipica dell'homo italicus è costituita da un 50% di sano spirito anarchico (che più che anelito alla libertà intesa in senso nobile è un più basso e concreto farsi gli affari propri anche a discapito degli altri) misto ad una incoerente ma utile pretesa ad avere uno stato paternalistico che ci rimbocchi di comode coperte, assolutamente gratuite (lo chiamiamo welfare).
Se è vero, come almeno in parte sicuramente è, che alla fine della fiera, in 20 di seconda repubblica equamente spartiti tra Berlusconi e centrosinistra di Prodi e succedanei, le lenzuolate di privatizzazioni si agganciano per lo più alla stagione 2006-2008 (il Prodi bis, armata brancaleone che però qualcosina fece in questo senso, con niente meno che Bersani ministro dell'Industria) , e non ricordo (qualcosa ci sarà stato, ma credo non memorabile) granché da parte dei governi di centro destra, pure sventolanti la bandiera della "rivoluzione liberale", ebbene ciò vuol dire che l'antimercatismo è sempre stato qualcosa di prevalente in Italia.
Di nuovo c'è solo che sono tornati in tanti a esternarlo a voce alta.
Panebianco, come un po' tutti, prevede comunque elezioni politiche che non produrranno un vincitore VERO, coalizione o partito che sia. Nessuno avrà la maggioranza delle camere, e si dovrà vedere poi se si riusciranno a formare alleanze utili a formare un governo.
Come accaduto in Spagna, in Olanda, ora in Germania, solo per fare esempi più noti.
Col sistema maggioritario dotato di un premio senza limiti di rappresentanza raggiunta al primo classificato, probabilmente a vincere sarebbero i grillini, secondo tutti i sondaggi il primo partito con poco meno del 30% delle intenzioni di voto.
Non una bella cosa, anche e soprattutto per il professore.
Detto ciò, non si può immaginare un sistema elettorale in funzione del proprio comodo (anche se ovviamente tutti i partiti lavorano in questo senso), e giustamente la Corte Costituzionale ha sempre indicato la necessità di conciliare in modo omogeneo i principi di rappresentanza e di governabilità, tenendo peraltro conto che in democrazia semmai è il primo che deve avere un minimo di prevalenza.
Buona Lettura
Il mercato e quel bacino di ostilità
Il sospetto è che, come ai tempi del Pci, un terzo degli
italiani sia pronto a votare per forze programmaticamente avverse al mercato.
Il caso di M5S
di Angelo Panebianco
Sabato scorso, sulla prima pagina di questo giornale,
c’erano una notizia e un commento, apparentemente senza legami fra loro, che,
insieme, attestavano l’esistenza di persistenze, di continuità storiche,
confermavano il fatto che gli orientamenti di fondo di questo Paese non siano
mai davvero cambiati, siano oggi gli stessi di molti decenni fa. La notizia
consisteva nel risultato di un sondaggio che dà il movimento dei 5 Stelle al
29,1 per cento, lo conferma, nelle intenzioni di voto degli italiani, come primo
partito. Il commento era quello di Francesco Giavazzi che documentava la
rimonta dello statalismo dopo una breve stagione, durata pochi anni, in cui era
sembrato in ritirata, che descriveva una classe politico-parlamentare di nuovo
preda di una frenesia anti-mercato come dimostrano tanti provvedimenti sfornati
recentemente dal Parlamento. Pochi, mi pare, hanno notato che i 5 Stelle
raggiungono, per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentuale di
consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima
Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra cosa sono i
voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistema sono
sottorappresentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del
Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibile a votare per un
partito programmaticamente ostile alla democrazia liberale.
I 5 Stelle non sono l’unico partito di questo tipo? Anche
questo è vero. Ma era vero pure nella Prima Repubblica: oltre al Pci c’era
l’Msi e c’erano componenti illiberali (di minoranza) all’interno della
Democrazia Cristiana e del Partito socialista. Se si tirano le somme si vede
che ben poco è cambiato, poniamo, rispetto agli anni Sessanta dello scorso
secolo: la percentuale di elettori attratti da partiti e gruppi illiberali è
oggi più meno la stessa di allora. Ma le persistenze non si fermano qui. Nel
suo editoriale («Statalismi di ritorno in economia») Francesco Giavazzi ha
mostrato come la classe politico-parlamentare non abbia ormai più remore
nell’alzare la bandiera di un nuovo statalismo. Osserva Giavazzi che: «Dopo le
liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus
dell’antimercato si sta di nuovo diffondendo». Al punto che, truffaldinamente,
si è arrivati a chiamare «privatizzazione» la vendita di quote di aziende
possedute dallo Stato alla Cassa Depositi e Prestiti, un ente che è nelle mani
dello stesso Stato.
Proprio come ai tempi della Prima Repubblica il controllo
statale sui gangli vitali dell’economia è tornato a essere un ideale di vita
pubblica e, per quel che è possibile (Europa permettendo), anche una pratica
politica. Quando finì la
Prima Repubblica , ufficialmente a causa della corruzione, in
realtà a causa di uno spettacolare «fallimento dello Stato» dovuto
all’accumulazione di un debito pubblico gigantesco e fuori controllo, si
affermò ed ebbe una qualche fortuna per un certo periodo — benché ciò andasse
contro le tradizioni del Paese — l’idea che bisognasse dare molto più spazio di
un tempo alle forze del mercato. Quella breve stagione sembra ora alle nostre
spalle. Si torna agli antichi vizi. Ma i provvedimenti statalisti che
danneggiano i consumatori generando le rendite politiche di cui ha parlato
Giavazzi, non sarebbero possibili se il Paese non fosse attraversato, oggi come
un tempo, da vigorose correnti anti-mercato, se il mercato non fosse avversato
da un cospicuo numero di nostri concittadini.
Ancora una volta, le intenzioni di voto sono rivelatrici: se
è molto ampio il bacino elettorale in cui possono pescare i gruppi politici
illiberali, ancora più ampio appare quello in cui sono diffusi orientamenti
anti-mercato. Grosso modo la metà degli elettori di questo Paese sembra
disponibile a votare per gruppi politici (di destra o di sinistra) più o meno
esplicitamente statalisti. Il cosiddetto «sovranismo», la critica dell’economia
aperta, il favore per il protezionismo, non sono invenzioni estemporanee,
intercettano una domanda diffusa, di protezione statale dal mercato. Non ci
sarebbe lo statalismo di ritorno di cui ha parlato Giavazzi se non ci fosse nel
Paese quella domanda.
Se gli orientamenti di fondo in materia di mercato o di
democrazia liberale non sono cambiati rispetto a trenta o quaranta anni fa è
però cambiato il contesto. Ai tempi della Guerra fredda era il sistema delle
alleanze internazionali a proteggerci, almeno in parte, da noi stessi, dalle
nostre peggiori inclinazioni. Oggi un’Europa in crisi non ne ha la forza. Le
componenti, fortunatamente non sparute, della società italiana che non si
arrendono all’idea di un futuro «peronista» (illiberale e statalista) devono
arrangiarsi, contare solo sulle proprie forze. Fallito il tentativo di creare
una democrazia maggioritaria, prevale la frammentazione politica e i poteri di
veto sono forti diffusi e radicati, come, del resto, lo erano un tempo. In
queste condizioni, chiunque vinca le prossime elezioni (ammesso che qualcuno le
vinca) non avrà la forza per imporre le sue scelte. Più che una resa dei conti
fra amici e nemici della società aperta si prevede un lungo periodo di stallo.
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