domenica 2 marzo 2014

CRISI UCRAINA. ALL'EX AMBASCIATORE ROMANO PIACE TROPPO YALTA


La crisi in Ucraina precipita, con i russi ormai in forze in Crimea e il governo di Kiev che richiama i riservisti.
Personalmente, l'idea che mi sono fatto ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/03/lucraina-verso-la-scissione-forse-e.html )  è che in quel Paese le divisioni tra anti e filo russi siano troppo nette per essere superate. Tanto più se c'è un vicino potente che dichiara apertamente la sovranità limitata dell'altro, in nome degli "interessi della Russia".  Probabilmente più che una maggiore autonomia, che di quella già godono, i paesi russofili, come la Crimea, tanta vale che ritornino sotto l'abbraccio della santa madre e così sia. Un discorso credo realistico ma mai cinico quanto quello che leggo, ripetutamente, da Sergio Romano sul Corsera. Divenuto editorialista, trattando soprattutto di temi di politica estera - ma parla di tutto - l'ex ambasciatore ( proprio a Mosca concluse la sua carriera diplomatica, negli anni 80 ) si caratterizza per una real politik estrema. La sensazione è che per lui il mondo perfetto, perché più "equilibrato", era quello uscito da Yalta, quando il mondo fu diviso tra Occidente e Oriente, con sfere di influenza che si estendevano a tutto il Globo. La dissoluzione della ex Jugoslavia per Romano sembra essere una sciagura, che cita sempre l'eccessiva velocità con cui l'Europa riconobbe l'indipendenza di Slovenia e Croazia (paesi che stanno ora benissimo per conto loro), e secondo me anche la riunificazione della Germania non gli deve essere piaciuta molto (del resto Andreotti, che a cinismo e sarcasmo non scherzava, soleva dire : io amo talmente la Germania che ne voglio addirittura due...).  Io sono consapevole che il mondo è complicato, e quando si parla di conflitti di questo tipo ancora di più. Però non credo che siano i rapporti di forza l'unico elemento di cui tenere conto, che altrimenti altro che a Yalta saremmo ancora.  Uno deve avere un principio più nobile cui ispirarsi, e poi, nella ricerca della sua realizzazione,  fare i conti con la realtà e quindi puntare a ciò che è possibile. In questo caso mi riferisco al principio di autodeterminazione dei popoli, da conciliare, nelle varie regioni, con quello della tutela e del rispetto delle minoranze. In concreto, se in Crimea la maggior parte della popolazione attuale è russa, e filo russa, e soltanto una improvvida iniziativa di Krusciov nel 1954 trasferì questa regione all'Ucraina ( ma allora tutto era URSS, e quindi cambiava poco), è probabilmente la soluzione migliore che Kiex la lasci andare (del resto, che potrebbe fare ? fare guerra ai russi confidando nell'aiuto di USa e d Europa ? illusi ! ), preoccupandosi semmai che gli ucraini e i tatari (rispettivamente circa il 30 e il 10% della popolazione della Crimea) godano di diritti equivalenti agli altri cittadini. Preoccupazione peraltro che dovrebbe essere dell'intera comunità internazionale, e sempre, non solo in Crimea. 
Questo discorso vale per tutte le difficili realtà nazionali. La Scozia ha ottenuto di potersi esprimere con un referendum per decidere se continuare ad essere parte della Gran Bretagna o essere completamente indipendente. La Catalogna chiede la stessa cosa, e alla fine la otterrà. Sono certo che Romano è contrario a tutto questo "indipendentismo", io, amante della libertà, no.
Comunque, siccome questo blog ospita anche il "diverso parere", ecco l'articolo menzionato.



"La frontiera della Storia. Caterina la Grande, Stalin, Eltsin: tutti hanno difeso la Crimea"

I buoni accordi internazionali sono quelli in cui ciascuna delle due parti, senza trascurare i propri interessi, riesce a mettersi nei panni dell’altra e ne comprende le esigenze. Dopo la guerra del 1870 Bismarck capì che la Francia umiliata non avrebbe dimenticato la sconfitta e ne favorì le ambizioni coloniali in Tunisia per dare qualche soddisfazione al suo bisogno di dignità e grandezza. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Stalin capì che una Finlandia indipendente e neutrale sarebbe stata meno pericolosa per l’Urss di una repubblica sovietizzata e costretta a vivere all’interno delle frontiere del Paese contro cui si era coraggiosamente battuta. La Nato e più recentemente l’Unione Europea sembrano avere dimenticato questo principio della convivenza internazionale. Hanno esteso le frontiere dell’Alleanza Atlantica al di là del sipario di ferro sino ai confini nord-occidentali della Russia. Hanno incluso l’Ucraina e la Georgia fra i Paesi che, prima o dopo, ne sarebbero divenuti membri. E corrono il rischio di commettere errori altrettanto gravi nel caso della Crimea. Fino alla seconda metà del XVIII secolo la Crimea era un khanato tataro, residuo storico dell’Orda d’oro (da cui la Russia era stata occupata nel XIII secolo) e vassallo dell’Impero ottomano. Conquistato da Caterina la Grande nel 1784, permise alla Russia di rafforzare la sua presenza nel Mar Nero e divenne la principale base militare della sua flotta meridionale. La guerra di Crimea e l’assedio di Sebastopoli, nel 1854, confermarono che quello era il ventre molle dell’Impero, la provincia che la Russia non poteva abbandonare senza rinunciare alla propria sicurezza. Una delle condizioni più umilianti del Trattato di Parigi, dopo la fine della guerra di Crimea, fu per l’appunto la chiusura delle basi, imposta dai vincitori. La clausola fu revocata prima della fine dell’Ottocento, ma dopo la Rivoluzione d’Ottobre, durante la guerra civile, la Crimea divenne uno dei principali contrafforti dell’esercito bianco del generale Denikin e, più tardi, del generale Wrangel. Riconquistata dai Rossi, continuò ad avere per lo Stato sovietico la stessa importanza politica e militare che aveva avuto per lo Stato zarista. Erano criteri e riflessi imperiali, ma non diversi da quelli che ispiravano le grandi potenze e che hanno motivato negli ultimi decenni molte iniziative della politica americana. La Seconda guerra mondiale confermò i timori della Russia. Quando le armate tedesche invasero l’Urss nel 1941 e avanzarono rapidamente sino ai sobborghi di Mosca, Hitler volle che una parte del corpo di spedizione piegasse verso sud e scendesse in Crimea. Non gli bastava Odessa, presidiata dai romeni sul Mar Nero. Voleva conquistare il Caucaso e impadronirsi del petrolio di Baku, sognava di lanciare la Wehrmacht verso l’India con un sogno strategico che ricordava quelli di Alessandro e di Napoleone. I tedeschi s’installarono in Crimea (dove poterono contare sulla collaborazione di molti tatari) e furono respinti per qualche tempo dall’Armata Rossa, ma riuscirono a tornarvi sino all’autunno del 1943. Stalin non dimenticò il rischio corso dall’integrità dello Stato e non esitò a deportare le popolazioni tatare in Asia centrale. Più tardi, nel 1954, Kruscev regalò la penisola a Kiev per festeggiare il trecentesimo anniversario della storica unione fra Russia e Ucraina. Forse voleva dare una soddisfazione al Paese in cui era nato, forse aveva festeggiato, come era spesso sua abitudine, con troppi bicchieri di vodka. Anche Boris Eltsin era un grande bevitore, ma in materia di Ucraina e di Crimea dette prova di prudenza e buon senso. Sapeva che la fine dell’Unione Sovietica presentava grandi rischi. I confini delle repubbliche erano il risultato delle manipolazioni staliniane e quasi sempre contestabili. Occorreva quindi evitare che lo scioglimento del patto federale imposto dal regime comunista risvegliasse i nazionalismi che continuavano ad ardere come brace sotto la crosta della vecchia Unione Sovietica. Eltsin sperava di sostituire all’Urss una Comunità degli Stati indipendenti e sapeva che il suo disegno avrebbe avuto qualche possibilità di successo soltanto se le frontiere di tutte le repubbliche fossero state confermate e riconosciute. Avrebbe potuto rivendicare la Crimea, dove i russi, prima del ritorno dei tatari, rappresentavano circa due terzi della popolazione. Ma rinunciò a qualsiasi pretesa. Non poteva, tuttavia, ignorare l’importanza strategica di Sebastopoli per la flotta e negoziò con i dirigenti di Kiev un affitto di lunga durata fino al 2017 che è stato recentemente rinnovato per un periodo di 25 anni dal governo di Viktor Yanukovich. Vladimir Putin non ha abbandonato questa linea. Ha fatto la guerra cecena per impedire la nascita di uno Stato musulmano a nord del Caucaso, ma ha dato in cambio denaro e autonomia. Ha punito le aspirazioni atlantiche della Georgia con la creazione di due piccoli Stati vassalli (Abkhazia e Ossezia), ma soltanto dopo la provocazione militare di Mikhail Saakashvili. Ha cercato di impedire che l’Ucraina, insieme alla Crimea, venisse attratta verso l’Unione Europea e domani, probabilmente, verso la Nato. Ma non credo che tema il cambiamento dei confini meno di Eltsin. L’Unione Europea, in queste circostanze, ha di fronte a sé due scelte possibili. Può sostenere le piazze ucraine e accettare di conseguenza la possibilità che il Paese si spacchi in quattro pezzi: l’Ucraina di Leopoli, quella di Kiev, quella russofona e una Crimea inevitabilmente soggetta a una sorta di protettorato russo. Può invece cercare con la Russia un accordo che salvi l’integrità dello Stato e lo aiuti economicamente a uscire dalla crisi. Speriamo che si ricordi, prima di prendere una decisione, ciò che accadde quando la Germania, nel dicembre 1991, riconobbe troppo frettolosamente l’indipendenza della Slovenia e della Croazia.

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