martedì 4 marzo 2014

PUTIN ANTIFASCISTA FA RIDERE, MA TRATTARE CON LUI SI DEVE


La questione Ucraina, che negli ultimi giorni aveva avuto una forte e pessima accelerazione, ha portato alla luce voci pro Putin che mi hanno stupito. Non tanto sulla questione concreta in sé, dove è ben difficile dire che i torti e le ragioni siano ben individuabili, ma in generale mi stupisce una sorta di favore filo russo che da 25 anni non incontravo più. Devo dire che è stato un bel giubileo. 
Cerca di fare il punto della situazione Roberto Toscano, già riportato altre volte, che a mio avviso opera un giusto mix tra valutazioni di principio, per le quali è evidente che la condotta di Putin sia inaccettabile, visto che allo stato nessuno ha toccato gli interessi russi in Crimea né sono stati fatti dei torti alla popolazione russa in Ucraina, né si prevede che lo si faccia, tenuto conto che immagino a Kiev sappiano di che pasta è fatta il loro vicino ( difficile dimenticare una storia centenaria) e allo stesso tempo come non verrebbero aiuti concreti e tempestivi da parte dell'occidente. Eppure il nuovo zar di Russia ha pensato bene di mostrare i muscoli e di far entrare il proprio esercito in una regione tuttora appartenente ad uno stato libero e sovrano (sulla carta). Allo stesso tempo, trattare con la Russia si deve, ricorda Toscano, cercando di non provocare suscettibilità e orgogli nazionalistici ma anche risvegliare timori che da sempre la Russia zarista, poi l'URSS e ora Putin nutrono : il cosiddetto complesso di "accerchiamento", e l'insicurezza dei propri confini.
Per fare un esempio concreto, per i Russi è già troppo la Polonia nella Nato senza aggiungerci l'Ucraina.
Buona Lettura




Il forcing di Obama e il bivio italiano

Ormai non ci sono più dubbi: la crisi ucraina segna il punto di maggiore pericolo registrato in Europa a partire dalla fine della Guerra Fredda.

Anche se si spera che uno scontro militare fra Russia e Ucraina possa essere scongiurato, siamo di fronte a drammatici eventi che ci fanno capire che avevamo troppo frettolosamente archiviato la questione delle ripercussioni politiche e territoriali della fine dell’Unione Sovietica. Con troppo ottimismo ci eravamo compiaciuti del fatto che la dissoluzione dell’Urss fosse avvenuta in modo sostanzialmente pacifico, in totale contrasto con le drammatiche lacerazioni prodotte dalla fine della Jugoslavia. Oggi viene da pensare che si sia trattato soltanto di un rinvio di questioni non solo irrisolte, ma difficilmente risolvibili date le contraddizioni fra storia e politica, suddivisioni territoriali e appartenenze etnico-linguistiche.  
 
Alla radice dell’attuale crisi vi è in primo luogo la ferma intenzione di Vladimir Putin di affermare e difendere un ruolo sia regionale che globale della Russia sulla base di un’ideologia nazionalista che si ricollega, anche nella simbologia tradizionalista, a radici pre-sovietiche. Per giustificare il dispiegamento di reparti militari in Crimea in una sorta di invasione strisciante, Mosca non evoca infatti, come in Ungheria 1956 o Cecoslovacchia 1968, considerazioni sia ideologiche che strategiche, bensì il dovere di tutelare la popolazione russofona dalle paventate conseguenze del prevalere del nazionalismo ucraino. Viene in mente Milosevic, autonominatosi paladino dei serbi ovunque vivessero nel territorio della ex Jugoslavia, e soprattutto colpisce il parallelo con l’invasione turca di Cipro Nord nel 1974, motivata da Ankara dalla necessità di proteggere la popolazione turca dell’isola. Visto che la popolazione russofona della Crimea non sembra correre pericoli, le motivazioni di Putin risultano tuttavia anche più pretestuose di quelle serbe o turche. E se è vero che non mancano fra i vincitori della rivoluzione ucraina elementi di ultradestra, alcuni addirittura neonazisti, la campagna russa per denunciare il pericolo di una rinascita del fascismo ucraino sarebbe più convincente se non stessero per convergere sulla Crimea, a difesa della popolazione russa, volontari di non specchiate credenziali democratiche come il noto scrittore e attivista Eduard Limonov (che possiamo vedere sul web mentre, ospite di Karadzic, spara con una mitragliatrice su Sarajevo), squadracce di cosacchi (sì, quelli che a Sochi hanno preso a scudisciate le Pussy Riot) e persino gli Hell’s Angels russi (i «Lupi della notte», robusti patrioti con cui Putin una volta si è fatto fotografare). 

Allora, lasciando stare l’antifascismo putiniano, sembra opportuno cercare in altre direzioni per capire le ragioni di un comportamento russo a così alto rischio.

Gli eventi di Kiev hanno convinto Putin che l’alterazione, a netto sfavore della Russia, del precedente status quo in Ucraina non sia spontanea, bensì prodotto di una sistematica azione degli americani e degli europei. Gli si può certo ribattere che non servono complotti internazionali per spiegare la caduta a furor di popolo di un Presidente autoritario e cleptocratico come Yanukovich, ma prima di tacciarlo di paranoico forse dovremmo cercare di fare uno sforzo di obiettività e ammettere che l’incoraggiamento occidentale agli attivisti antigovernativi della Maidan non è stato certo né discreto né di basso livello, con la comparsa sulla piazza dei ministri degli Esteri di Francia e Germania e del senatore McCain. Così come non è un mistero che la prospettiva di un ingresso dell’Ucraina nella Nato non sia solo un incubo russo, ma un progetto palese di forze politiche e personalità non secondarie di Stati Uniti ed Europa.  

Chiederci come siamo arrivati alla situazione attuale è certo importante, soprattutto se riusciamo ad evitare un’interpretazione semplicistica di un quadro estremamente complesso, ma quello che è urgente è trovare una soluzione che eviti lo scontro militare e anche una frattura con la Russia che potrebbe avere ripercussioni pesanti su tutta una serie di fronti, a partire da quello medio-orientale.

I nostri nuovi responsabili governativi (sia il presidente del Consiglio che la ministra degli Esteri) si sono immediatamente trovati a dover far fronte a una crisi molto seria e a dilemmi di non facile soluzione.
Adottare con la Russia una linea dura, come quella delineata domenica da Kerry in un’intervista alla Abc, e condivisa da Francia e Regno Unito? C’è però da chiedersi che senso avrebbe imporre sanzioni economiche ad un Paese da cui dipendiamo significativamente per le forniture energetiche, e con cui abbiamo intensi rapporti economici. Non mancano poi quelli che traggono conclusioni molto scettiche dall’esempio del 2008, e dalla scarsa efficacia e breve durata delle misure occidentali nei confronti della Russia dopo il conflitto con la Georgia e la sottrazione a Tbilisi di Abkhazia e Ossezia del Sud.

L’altra alternativa, verso la quale sembra propendere la Germania, è uno sforzo politico teso a promuovere un dialogo fra Ucraina e Russia. Prospettiva assai tenue dal punto di vista diplomatico, dato che in questo momento la tensione sembra lasciare ben poco spazio al compromesso, ma che in realtà potrebbe corrispondere agli interessi non solo dei dirigenti ucraini, che ben sanno di non poter contare sull’Occidente per «sostituire la Russia» dal punto di vista economico, ma in fondo anche di Putin, al quale non può certo sfuggire che una Russia forte non può essere una Russia isolata. 

In occasione della sua imminente visita in Italia non sarà per noi facile, tuttavia, dire di no a Obama che – bersaglio di serrate critiche per la sua cautela sulla Siria - vede nella crisi ucraina un ineludibile test di credibilità.

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