venerdì 29 agosto 2014

QUEGLI UOMINI INCOLONNATI E SEMINUDI VERSO IL MACELLO




Linea Notte del TG3 manda in onda le immagini di una colonna di uomini seminudi che camminano nel deserto con le braccia dietro la nuca, scortati da un pugno di guardiani vestiti di nero. Sono i soldati di Assad, presi prigionieri da quelli dell'IS (Stato Islamico, costituitosi prendendo territori di parte del nord della Siria e dell'Iraq). Nel momento in cui vedo sconcertato il filmato ancora non so che quegli uomini saranno tutti uccisi. Poco dopo ci sono altre 4 persone bendate e inginocchiate, in attesa anche loro di essere assassinate. 
Questi sono gli eroi di Massimo Fini e di  Di Battista (il belloccio degli ortotteri), gli islamici da comprendere e con cui dialogare...
Quelli da "arrestare", nel senso di fermare, ma senza bombardarli...
Io credo che se Hitler vedesse tutto questo, rimpiangerebbe di essere vissuto negli anni '30 e non ai giorni nostri dove l' Europa se la sarebbe mangiata in un sol boccone, senza nemmeno sparare probabilmente. Ma a parte le considerazioni dettate dall'amarezza, c'è la turbata constatazione che (non) uomini così saranno sempre più forti, non sarà possibile distruggerli completamente (come si è visto coi talebani in Afghanistan), e questo per un fatto aberrante e semplicissimo, che loro stessi ripetono continuamente : loro "amano" la morte (immaginando, ritengo, il premio dell'al di là),  noi siamo attaccati a questa vita. 
Nel desolato ma sempre ben scritto post che segue Adriano Sofri affronta, tra i vari temi, quello della strana sindrome del gregge che prende gli uomini che a centinaia vanno incontro al loro destino senza ribellarsi, nonostante che i loro guardiani magari siano un pugno di aguzzini, ancorché armati. Uno pensa : morto per morto, perché non  tentare confidando che il numero possa prevalere e qualcuno riesca a salvarsi ? Invece non accade, evidentemente qualcosa si spezza dentro l'essere umano che si dà per vinto e aspetta con rassegnazione che gli venga inferto il colpo di grazia. Però la domanda resta, e non è peregrina. Molti ebrei si vergognano per l'inerzia dei loro padri e nonni che si fecero sterminare senza combattere (la ribellione del ghetto di Varsavia è una delle rare eccezioni) giurando a se stessi : mai più ! (e stanno mantenendo il giuramento), e molti dei sopravvissuti delle deportazioni testimoniarono spesso lo stesso sentimento, oltre che il senso di colpa per essere sopravvissuti. 
Noi queste cose le guardiamo in tv, pensando nascostamente che per fortuna siamo europei. Gli americani se per questo erano ancora più "al sicuro di noi", ben più lontani fisicamente dalle roccaforti islamiste. Poi venne l'11 settembre.



Come con un gregge
 


Perché stiamo guardando e mostrando con più attenzione e costanza queste immagini? Fanno cassetta?
Non è escluso: ma se fosse per ciò non risparmieremmo il subisso di filmati traboccanti di macelleria in atto. E’ giusto sottrarci allo spettacolo raccapricciante e torbido: pur di non cedere alla rimozione. E’ il mondo in cui viviamo, in cui alcuni “di noi” muoiono e uccidono: ed è soprattutto il mondo in cui si sono bruciate le distanze fra “noi” e “loro”. Un vicinato. Anche questa fotografia –oscenamente “bella”, come un film di Lean- ha il suo complemento nel video che mostra l’epilogo e il sipario.
Il genere è consolidato, si chiama “marcia della morte”, annovera le decine di migliaia di difensori di Bataan, filippini e americani, incolonnati dai giapponesi, umiliati, torturati, e finiti lungo un cammino forzato. Trucidati di preferenza con la decapitazione. Annovera gli stremati prigionieri dei campi di sterminio nazisti da sottrarre, nel 1944 e 1945, all’arrivo dei russi e degli alleati. Soprattutto annovera l’antesignana moderna delle marce della morte, quella cui, in un territorio vicinissimo alla Siria della fotografia di oggi, furono costretti gli armeni dall’esercito ottomano; a infierire su loro lungo il cammino fu la manodopera curda, la macchia più grave su un popolo carico a sua volta di persecuzioni. Nella nostra fotografia non c’è una marcia della morte che li deporti lontano e li decimi lungo il percorso: c’è l’incolonnamento del bestiame portato al luogo del macello. Del bestiame, dico, e non per metafora. Gli incolonnati sono sciagurati militari del regime siriano di Assad che fino a poco fa hanno difeso il campo d’aviazione di Taqaba, l’ultima ridotta espugnata dallo Stato Islamico nella provincia di Raqqa in cui ha la sua roccaforte. Sono stati denudati delle loro uniformi, per destituirli della qualità di soldati e combattenti, ma anche della qualità di umani. Le mutande che hanno indosso non sono un ultimo straccio di rispetto al loro pudore, ma alla verecondia timorata degli aguzzini. I quali, al lato e in coda, sono pochi, proprio come pastori con un gregge spinto al macello. Non ci sono cani, perché i pastori musulmani disprezzano i cani. I condannati sono centinaia e sanno qual è la loro meta. E se guardandoli ci chiediamo, vecchia eterna domanda di spettatori, perché non si ribellino, perché almeno non riscattino il momento estremo con un gesto senza speranza (chissà, forse qualcuno l’ha fatto), sbrighiamoci ad ammettere che tanto varrebbe domandarsi perché le pecore non si ribellino a cani e pastori e macellai. E forse a questi uomini spogliati e costretti a confondersi come ci si confonde in una mandria, il pensiero di arrivare in fondo alla marcia forzata e ricevere la propria pallottola alla nuca deve apparire come una grazia. Nel video –“amatoriale”, mai l’aggettivo fu così appropriato- li si vede sfilare con le mani giunte dietro la nuca e poi, a cose fatte, allineati e accatastati l’uno sull’altro come birilli ruzzolati da un lato. La meticolosa carrellata sui cadaveri è come un’incombenza minore dei boia che stanno già dando le spalle a quel pasto di cani e uccelli. Almeno duecento birilli. A difendere Taqaba erano in 1.400, e nella battaglia durata cinque giorni a centinaia sono morti in un campo e nell’altro. Altre centinaia sono riusciti a fuggire. Le atrocità vengono commesse alternamente dagli uni e dagli altri, anche se l’Is ha portato un sovrappiù di spietatezza corporale e ne ha fatto la propria arma peculiare, il segreto del terrore suscitato nei nemici e del plauso guadagnato fra gli adepti. La rete è piena di loro spettacoli dell’orrore, e di documentari in cui si esibiscono senza passamontagna, enunciando dettagliatamente i loro piani, vantando prodezza e moralità delle imprese che a noi sembrano ributtanti, compiacendosi di far rispondere al loro bambino, fra effusioni affettuose e virili, se preferisca essere muhiahid o shahid suicida. Sempre di ieri era la piccola notizia che molte decine di caschi blu, filippini e di altre nazionalità, sono stati catturati in Siria. Appartengono a una forza dell’Onu che ha nella denominazione la parola “desengagement”: più chiaro di così.
Per aver scelto di non fare niente nel corso di anni, i paesi occidentali si interrogano oggi costernati su che cosa fare. Soprattutto, come fare ad arginare il Califfato senza riammettere Assad nel salotto buono. Qualunque intervento dovrebbe avere un’esplicita condizione: che Bashar Assad lasci il potere e si trovi un futuro di suo gusto in qualche albergo russo. La successiva condizione è che i confini, cancellati dalla irresistita avanzata dell’Is in nome del califfato universale, non vengano ripristinati ma sostituiti dal progetto di una comunità civile e e un mercato mediorientale sullo stampo dell’Unione Europea, se l’Unione Europea aderisse al suo stampo. E se guardasse con attenzione la fotografia.

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