domenica 26 ottobre 2014

REYHANEH. EROINA ABBANDONATA



Ad un certo punto sembrava che si sarebbe salvata Reyhaneh, che le proteste e le invocazioni di tanta parte del mondo avessere avuto l'effetto voluto : indurre il governo iraniano a non dare esecuzione ad una sentenza allucinante. Ci eravamo illusi. E' stata impiccata, colpevole per aver ucciso il proprio stupratore. Quando la gente parla dei diritti delle vittime, forse dovrebbe pensare a questa vicenda, dove a scalciare lo sgabbello dove la ragazza era in piedi col cappio al collo è stato il figlio del violentatore ucciso. La sublimazione della vendetta. 
Da questo episodio tragico prende spunto Pierluigi Battista per fare il desolante punto dello stato dei diritti umani, in un mondo dove il realismo politico è giunto a livelli francamente imbarazzanti anche per soggetti non romantici come il camerlengo. 
Chissà che ne pensa, del pensiero del collega, Sergio Romano, che nel Corriere della Sera è decisamente il principe della Real Politik.
 


Reyhaneh e l’eclissi dei diritti umani
di Pierluigi Battista 
 

A Teheran Reyhaneh Jabbari (nella foto) è stata impiccata al termine di un processo-farsa, colpevole di aver colpito a morte l’uomo che la stava stuprando. Ci saranno proteste blande, comunicati misurati, prudenti prese di posizione. O forse niente. Con l’Iran, nel turbolento scacchiere medio orientale, bisognerà pur tenere la porta aperta.
I corpi degli impiccati che penzolano sulle piazze di Teheran vanno cancellati, lo impone la sapienza diplomatica. I diritti umani sprofondano nell’oblio. Il realismo politico trionfa. Nessuno verrà in soccorso delle vittime di regimi sanguinari e oppressivi.
La fine rovinosa delle «primavere» arabe ha sradicato la difesa dei diritti umani fondamentali dall’agenda politica dei governi. L’opinione pubblica internazionale è stanca e impaurita. Dimentica i 230 mila morti in Siria, e anzi non dissimula nemmeno un certo compiacimento per i massacri compiuti da Assad: mica vogliamo darla vinta agli sgozzatori che praticano la decapitazione rituale degli infedeli? Certo che no. E infatti nessuno obietta se nell’Egitto dei militari, golpisti ma pur sempre laici, le prigioni della tortura son tornate a riempirsi con una frenesia persino sconosciuta ai tempi del dittatore Mubarak, e fioccano le condanne a morte per i membri dei Fratelli musulmani: mica vogliamo rafforzare gli assassini del fondamentalismo fanatico? Certo che no. Poi però dobbiamo accettare che uno strato spesso di ovatta ottunda la percezione di quello che sta accadendo in Pakistan, vulcano che può esplodere in ogni momento, dove una ragazza cristiana, Asia Bibi, viene condannata a morte con l’accusa grottesca di «blasfemia». In Iran hanno anche scatenato la guerra santa contro le donne che avevano osato assistere a una partita di volley e sono state arrestate. Facciamo finta di non vedere l’assurdità. Tra un po’ diremo che bisogna rispettare i costumi dei popoli, per metterci in pace con la coscienza. In passato qualcuno si era permesso di stupirsi perché all’Onu la commissione dedicata ai diritti umani risultava presieduta da un esponente del regime poliziesco di Gheddafi. Ce ne siamo pentiti: quel tiranno buffone teneva buone le teste calde, con i metodi che conosciamo. E ora abbiamo smesso di protestare. E anche di cogliere i risvolti grotteschi del realismo politico.
L’Arabia Saudita fa parte della coalizione contro l’Isis: davvero dovremmo indignarci perché il possesso di un crocefisso o di un rosario, nascosti in casa, è sufficiente per la condanna a morte di un «blasfemo» cristiano? Il realismo politico impone il silenzio, l’accondiscendenza, persino l’appoggio ai regimi che violano senza pudore i diritti umani più elementari.
Non dobbiamo scandalizzarci se gli scherani di Hamas ammazzano un po’ di palestinesi con esecuzioni sommarie ed esponendo per strada i corpi martoriati dei «collaborazionisti»: il realismo politico ci consiglia di non esagerare con le parole di condanna, che invece possono essere spese senza ritegno contro Israele, senza nessuna conseguenza spiacevole per noi. Ma anche se usciamo geograficamente dal mondo incandescente del fondamentalismo religioso, la consegna del silenzio sui diritti umani appare tassativa e intransigente. Il Tibet martoriato, il Dalai Lama che non bisogna nemmeno accogliere nelle visite ufficiali, i dissidenti in galera, la censura, le condanne a morte degli oppositori. Temi molesti, inopportuni, che rischiano di compromettere i buoni affari con un gigante che è meglio non fare arrabbiare. Su Putin, poi, il silenzio è diventato un dogma.
Lui sì che conosce il modello per trattare con i fanatici pericolosi: lo ha sperimentato in Cecenia, radendo al suolo Grozny. Oggi Putin deve essere blandito, ci sono ragguardevoli contratti da onorare, figurarsi se è il caso di chiedere all’autocrate come vengono trattati i dissidenti, i gay, gli oppositori, i giornalisti che spariscono e non si adeguano alla stampa di regime. Magari ci dispiace anche, ma non ci conviene manifestare il nostro civile disappunto perché al peggio non c’è mai fine e male abbiamo fatto ad affidarci ai ragazzi della «primavera» e forse ci siamo ficcati nei guai andando a impedire ai talebani di Kabul le lapidazioni delle donne negli stadi.
È la legge del realismo. Reyhaneh Jabbari riposi in pace.

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