giovedì 9 luglio 2015

MONFALCONE, ESEMPIO DEI DANNI DELL'IRRESPONSABILITA' DEI MAGISTRATI

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Non ero entrato sulla questione del sequestro dello stabilimento di Monfalcone un po' perché già a proposito dell'ILVA avevo espresso ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2012/07/se-la-perizia-sullilva-e-sbagliata-in.htmlhttp://ultimocamerlengo.blogspot.com/2012/08/a-taranto-lavoro-batte-salute-1-0-pero.htmlhttp://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/09/caso-ilva-se-anche-i-moderati-come.html ) tutto il mio disappunto su certa intraprendenza giudiziaria, un po' perché confidavo che prima o poi avrei trovato l'analisi di qualcuno più esperto di me da proporre ai miei amici lettori.
Ecco quindi il contributo di Davide Giacalone 


Diritto sequestrato


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Sul buco di Monfalcone non può essere messa la toppa di un decreto legge. Anche perché, sommato al buco di Taranto, è troppo grosso. 

Il problema che si pone non è isolato e momentaneo, ma generale e ripetuto. Anzi, si tratta di tre ordini di problemi: a. le misure cautelari al posto delle pene, l’indagine al posto del giudizio, quindi l’assenza di proporzione fra il reato presupposto e la punizione eventuale; b. l’insensatezza di consentire all’accusa di ricorrere sempre e comunque; c. l’assenza di responsabilità.  
E non se ne esce con un decreto legge.
Lasciamo perdere che Fincantieri è un pezzo prezioso e irrinunciabile del nostro essere la seconda potenza manifatturiera d’Europa, nonché uno dei settori, la cantieristica, che più traina quel poco che c’è di ripresa economica. Facciamo finta che non sia decisivo (e lo è), perché non è di questo che si occupa la magistratura. Osserviamo quel che è accaduto a Monfalcone: un’indagine iniziata nel 2013, con la misura cautelare presa due anni dopo. L’urgenza, come dire, mi pare contraddetta dal calendario. 
La questione riguarda il trattamento di rifiuti. Non si tratta di roba che avvelena, non siamo alla terra dei fuochi, qui la faccenda è di carta: Fincantieri accatasta rifiuti anche per conto delle ditte che lavorano in appalto, ma, dicono alla procura, ci vuole l’autorizzazione. E’ così? non lo è? Non lo so, ma penso che per accertarlo, posto che stiamo parlando di roba che non inquina, si possa e si debba farlo in giudizio. Applicare il sequestro, quindi provocare la chiusura dello stabilimento, significa affibbiare una misura cautelare che supera in durezza anche la più micidiale delle condanne possibili. Ammesso e non concesso che gli imputati siano colpevoli, per mancata autorizzazione bollata a far quello che, comunque, tutti possono vedere.
Tanto la cosa è fuori dalla logica che sia il gip quanto l’appello rifiutarono alla procura il sequestro. Ma l’accusa ricorre sempre. Spesso si sente dire che la giustizia non funziona anche perché gli avvocati fanno ostruzionismo, ricorrono per principio, facendo perdere tempo. Ma, almeno, lo fanno a spese del cliente. La procura lo fa a spese nostre. Che senso ha ricorrere per due anni? Se credi che le accuse siano fondate, già dopo il primo rifiuto molli la presa sulla misura cautelare e punti al giudizio, per avere le condanne. Invece ci si comporta come se il solo processo credibile sia il non processo della fase preliminare. Quello, oltre tutto, in cui l’accusato ha meno strumenti per difendersi.  
Questa stortura non la si corregge intervenendo sulle conseguenza, ma sulle cause.
La prima (esagerazione della non pena) e la seconda (ricorrere a oltranza) cosa sono possibili perché nessuno risponde di quel che fa. Se la carriera del magistrato fosse legata alla sua capacità (nel caso della procura) di accusare chi sarà condannato, probabilmente si eviterebbe di sostenere accuse in modo temerario. Se si dovesse rispondere del fatto che una misura cautelare chiesta si rivelerà sproporzionata rispetto alla pena poi stabilità, o, addirittura, all’assoluzione, probabilmente si sarebbe più cauti. Ma nulla di tutto questo: la procura chiede sempre tutto e lo chiede ricorrendo in ogni sede. Se va bene, bene, e se va male che problema c’è? Anzi, dimostra che la giustizia funziona. Eccome.
Seguiamo la logica del sequestro: siccome credo che tu abbia violato la legge, prima ancora di dimostrarlo fermo la tua attività. Con un sistema di questo tipo fare industria è impossibile. Ma c’è di più: è impossibile fare qualsiasi cosa. Anche giustizia. In modo analogo, infatti, si potrebbe dire: siccome quel tribunale ha sbagliato, difatti la sentenza è stata riformata, siccome quella procura ha sbagliato, difatti la richiesta è stata rigettata, per impedire danni più grossi li sequestriamo e chiudiamo. Manca l’autorizzazione? Chiudo lo stabilimento. L’accusa si rileva infondata? Chiudo la procura. Vi pare folle? Lo è.

Sappiamo che il governo è intervenuto con un decreto che ripari ai danni dei pubblici ministeri, e dei giudici loro sodali, ma anche a tale riguardo le osservazioni di Giacalone mi sembrano pertinenti : si risolve il problema per i "grandi", ma il vizio resta e i piccoli e medi restano indifesi. 

Opportuno ma ingiusto


Opportuno e utile, ma non giusto, il decreto legge che riapre due cantieri posti sotto sequestro da due procure. Per ragioni diverse e distanti. Non è giusto perché si riferisce solo agli “impianti strategici”, salvo il fatto che tale definizione è del tutto arbitraria. Mica esiste un albo degli strategici. Nella stessa identica situazione si trovano altre attività produttive, altre imprese e, quindi, altri lavoratori.
In base a quale criterio o principio di diritto si può accettare che se sei grande, o “strategico”, continui l’attività, mentre se sei piccolo e non decisivo devi sottostare a un provvedimento che potrebbe rivelarsi ingiusto o esagerato? Né si può usare come parametro il numero dei posti di lavoro in gioco, perché altrimenti si cade nel difetto opposto, al punto da non potere intervenire con misure giudiziarie se gli occupati sono tanti e gli occupanti si rivelano essere affiliati alla criminalità organizzata. Se si perde il senso della misura ci si condanna a cadere da un eccesso all’altro. Inoltre, per come è fatto il tessuto produttivo italiano, la miriade di “piccoli” è compressivamente strategica.
Il decreto, per sua natura, del resto, non affronta nessuno dei problemi che generano le disfunzioni. E’ sbagliata la legislazione ambientale, o quella relativa alla sicurezza sul posto di lavoro? Allora si cambi la norma. E’ esagerato il potere preventivo d’intervento delle procure? Allora si cambino le garanzie relative alla procedura, nella fase preliminare.  
Ma se non cambia la normativa di riferimento e ci si limita a intervenire d’urgenza, quindi su casi specifici, è evidente che la costruzione che ne deriva è sempre più barocca e squilibrata, quindi insostenibile. 
Il decreto ha risolto un problema urgente, ma ha aggravato un male terribile: l’incertezza del diritto e la pessima sensazione che se sei forte (magari anche solo dei problemi che derivano dalla tua possibile chiusura) riesci a trovare gli aiuti giusti per piegare le regole generali alle convenienze particolari.
 

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