lunedì 25 luglio 2011

SE IO FOSSI IL GIUDICE

"IN NOME DEL POPOLO ITALIANO"
Oggi sul Corriere della Sera due penne importanti a vario titolo si sono occupate del tema di questi giorni : la giustizia, le garanzie, il conflitto possibile tra poteri e segnatamente quello politico e quello giudiziario.
Il primo articolo che riporto è di Pierluigi Battista che prende spunto da un memorabile film di Dino Risi e dalla magistrale interpretazione di due grandi attori come Tognazzi e Gasmann per porre un quesito di coscienza personale : fino a che punto siamo disposti a sacrificare le regole, e quindi anche la legge, in nome di un superiore senso "etico", per il quale la persona  "immorale" va comunque colpita, punita ?
E' evidente qual'è la scelta di Battista, e anche la mia.
La Vostra ? 
Buona Lettura (come sempre le evidenziazioni  e le sottolineature sono mie). 

"Visto che si preannuncia un altro terremoto politico giudiziario e una nuova, fiammeggiante Tangentopoli, sarà utile, per chi non l’abbia già visto, procurarsi il dvd di un capolavoro del cinema italiano come In nome del popolo italiano (1971). Un regista geniale come Dino Risi aveva già messo a fuoco il duplice pericolo del fanatismo giudiziario e del cialtronismo impunito. Il suo film può essere anche adoperato come utile strumento per misurare il nostro tasso di garantismo. Per vedere se stiamo con Ugo Tognazzi, il giudice istruttore Mariano Bonifazi che si accanisce contro il campione della mascalzonaggine italiana Vittorio Gassman, l’imprenditore Renzo Santenocito, disonesto, tangentista, maneggione eppure innocente dell’omicidio di cui è ingiustamente accusato. Oppure se ci fa orrore il fervore moralista, il furore giacobino, l’invasamento rivoluzionario di un magistrato che pur di sradicare il Male della corruzione è disposto a distruggere la prova dell’innocenza di un devastatore dell’etica pubblica. Stiamo con Tognazzi a qualunque costo pur di colpire i corrotti? Oppure pensiamo che la magistratura debba solo applicare equanimemente la legge e non arrogarsi il diritto di purificare il mondo con i metodi dell’inquisizione e dei processi sommari? Si tratta di dilemmi morali che prescindono dall’attualità e quindi dovrebbero interpellare la nostra coscienza indipendentemente dalle nostre appartenenze politiche. E il cinema, l’arte e la letteratura sanno cogliere sfumature più delle carte processuali. Tonnellate di verbali giudiziari sono utili, ma assumerle come unica chiave di lettura del mondo può essere gravemente nocivo alla comprensione delle case: lo sa bene Marco Travaglio il quale, non appena si avventura in territori ignoti alla cronaca giudiziaria, ne esce frastornato finendo per collocare la Marsilio, editore della galassia Rcs, nella galassia Mondadori. Abbeverarsi all’opera di Risi, calarsi nei panni di Tognazzi e di Gassman può dunque saggiare il nostro atteggiamento verso le cose della giustizia, i comportamenti della magistratura, il propagarsi della corruzione, la stessa antropologia italiana. Può far capire se consideriamo le garanzie dello Stato di diritto delle vuote forme, degli intralci nel cammino trionfale e intransigente della Purezza e della Verità morale, anche a scapito delle realtà, oppure se ci fa paura la mistica della punizione esemplare, la purificazione della società perseguita con qualsiasi mezzo, la legge che si identifica con una missione morale. Il cinema è meraviglioso anche per questo: perché dà un volto e una profondità ai dilemmi che ci troviamo di fronte, come quello del giudice Spencer Tracy in un film straordinario come Vincitori e vinti sul processo di Norimberga. Il cinema italiano, poi, è una miniera per capire di che pasta siamo fatti, sempre in bilico tra adulazione e linciaggio".

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