Prima di lasciarvi alle condivisibili considerazioni di una delle penne nobili del Corriere, qualche dubbio mi viene.
Perché, se è l'interesse nazionale che oggi muove UDC e PD ad appoggiare il governo dei sacrifici europei, questo stesso interesse non poteva valere IERI? In fondo la lettera di intenti che Berlusconi portò prima alla riunione dei 15 d'Europa e poi al G20 di Cannes era una sorta di copia e incolla di quanto scritto da Trichet e Draghi nella missiva del 4 agosto. Ok, avete ragione è una domanda retorica. NULLA era fattibile, nemmeno una fantomatica legge che avesse guarito l'umanità dalle piaghe di tumori e infarti sarebbe stata votata dalle opposizioni, oggi "responsabili", se proposta dall'uomo del MALE.
Va bene. voltiamo pagina. L'uomo del MALE è in panchina (sarà sufficiente? O deve proprio morire?) .
Resta che Monti avrà non poche gatte da pelare a governare nel parlamento che conosciamo.
L' hanno lobotomizzato Fassina ieri che a Porta a Porta si mostrava disponibile al governo Monti e a digerire le ricette europee? Fassina è l'uomo del PD che litigò con Letta a proposito della lettera della BCE, che per lui era da rimandare al mittente in attesa della primavera europea, quella che doveva riportare in sella i leader della sinistra in Italia, Francia e Germania. E alla Bindi chi gli dà il bromuro per governare un anno con gli odiati berluscones? Ovvio che le stesse considerazioni valgono anche all'opposto, e infatti il malox nelle farmacie non si trova più...
Vedremo, intanto Buona Lettura
Con il loro sì, anche se comprensibilmente sofferto e tormentato, il Pdl e il Pd imboccherebbero con grande coraggio una strada nuova e piena di incognite. Se decidessero (come sembra possibile) di dar vita tutt'e due insieme e con il Terzo polo a un governo presieduto da Mario Monti, saprebbero di dover pagare un prezzo elevatissimo. Ma dimostrerebbero che la politica, la vituperata e bistrattata politica, è stata in grado per una volta, la volta più importante, di anteporre il bene comune agli interessi di bottega.
Pdl e Pd sono di fronte a un bivio: il più difficile della loro storia. Caricandosi il peso di un programma impopolare ma virtuoso, in linea con le pressanti indicazioni europee e anche sul tracciato di riforme strutturali e liberalizzatrici di cui ha improrogabile bisogno, sanno cosa aspetta loro. Vivrebbero uno squassante terremoto interno. Vedrebbero andare in pezzi schieramenti e alleanze. Affronterebbero la rivolta di una parte consistente dei loro elettorati. Passerebbero un anno pieno di pericoli e di trappole. Ma si guadagnerebbero il merito storico di aver tirato su l'Italia dal precipizio in cui, mai come adesso, sta rischiando di cadere.
In questi giorni l'Italia sta conoscendo una rivoluzione dagli esiti imprevedibili. L'annuncio delle dimissioni di Berlusconi ha rimescolato tutte le carte. L'incubo del default costringe tutti i protagonisti, non solo i partiti, ma anche il mondo dell'informazione, dell'economia, delle istituzioni, della società a destarsi dalla pigrizia della consuetudine e del già noto. Sta ribaltando il sistema politico e le nostre categorie concettuali da cima a fondo. Un governo di «grande coalizione» è certamente un'anomalia democratica. Ma lo era anche quella tedesca tra il 2005 e il 2009 che ha stretto i cristiano-democratici e i socialdemocratici in un innaturale abbraccio lungo quasi una legislatura. Quando Churchill diede vita nel '40 a un governo che prometteva «lacrime, sudore e sangue», pretese che quel governo fosse di unità nazionale, anche nella Gran Bretagna patria del bipolarismo dell'alternanza.
Pdl e Pd sono di fronte a un bivio: il più difficile della loro storia. Caricandosi il peso di un programma impopolare ma virtuoso, in linea con le pressanti indicazioni europee e anche sul tracciato di riforme strutturali e liberalizzatrici di cui ha improrogabile bisogno, sanno cosa aspetta loro. Vivrebbero uno squassante terremoto interno. Vedrebbero andare in pezzi schieramenti e alleanze. Affronterebbero la rivolta di una parte consistente dei loro elettorati. Passerebbero un anno pieno di pericoli e di trappole. Ma si guadagnerebbero il merito storico di aver tirato su l'Italia dal precipizio in cui, mai come adesso, sta rischiando di cadere.
In questi giorni l'Italia sta conoscendo una rivoluzione dagli esiti imprevedibili. L'annuncio delle dimissioni di Berlusconi ha rimescolato tutte le carte. L'incubo del default costringe tutti i protagonisti, non solo i partiti, ma anche il mondo dell'informazione, dell'economia, delle istituzioni, della società a destarsi dalla pigrizia della consuetudine e del già noto. Sta ribaltando il sistema politico e le nostre categorie concettuali da cima a fondo. Un governo di «grande coalizione» è certamente un'anomalia democratica. Ma lo era anche quella tedesca tra il 2005 e il 2009 che ha stretto i cristiano-democratici e i socialdemocratici in un innaturale abbraccio lungo quasi una legislatura. Quando Churchill diede vita nel '
C'era la guerra, è vero. Ma anche il fallimento dell'Italia e la sua emarginazione dall'Europa sono prospettive contro cui è necessario combattere una guerra che comporterà costi dolorosissimi. Se poi la Lega e l'Italia dei valori si dissociassero, privilegiando l'egoismo di partito sull'interesse nazionale, sarebbero il Pdl e il Pd a intestarsi il merito di aver giocato un ruolo nella bufera di una svolta storica: un anno di sacrifici, ma con la prospettiva di ripristinare le condizioni di una sana competizione democratica, in un'Italia che ha trovato la via d'uscita dalla tempesta economica e finanziaria e una strada per ridarle sviluppo e crescita con una ricetta che né un governo di centrodestra né uno di centrosinistra sarebbero in grado di realizzare.
Nell'immediato, i due partiti avrebbero tutto da guadagnare da un loro diniego. Il Pdl metterebbe a tacere il devastante malumore che sta avvelenando il partito dopo l'uscita di scena del leader. Non sarebbe costretto a trangugiare medicine amarissime. Salvaguarderebbe l'alleanza con la Lega. Il Pd potrebbe ingaggiare nell'immediato una campagna elettorale con notevoli possibilità di vittoria. Non si comprometterebbe con una politica di sacrifici che dai banchi dell'opposizione avrebbe volentieri bollato come «macelleria sociale», non regalerebbe a Di Pietro (e a Vendola?) lo scettro della protesta, con l'ovvia prospettiva di scardinare un'alleanza elettorale che sembrava fuori discussione. Ecco perché, se scegliessero la strada più impervia, quella verso cui Berlusconi sta cercando di spingere il suo riottoso partito, il Pdl e il Pd dovrebbero essere accompagnati dal massimo rispetto, anche da chi commenta le cose della politica e non deve misurarsi con quell'ingrediente essenziale della politica democratica che è il consenso. Il governo politico (non «tecnico») cui potrebbero dar vita, con la spinta determinante del Quirinale e con un premier che non potrà non interpretare con il massimo rigore la missione che gli viene istituzionalmente chiesta, richiederebbe una responsabilità eccezionale in condizioni eccezionali. Un compito che forse sarà avaro di riconoscimenti, ma che rappresenterà un soprassalto di serietà e di dedizione al bene comune. Un regalo insperato, una svolta obbligata.
Nell'immediato, i due partiti avrebbero tutto da guadagnare da un loro diniego. Il Pdl metterebbe a tacere il devastante malumore che sta avvelenando il partito dopo l'uscita di scena del leader. Non sarebbe costretto a trangugiare medicine amarissime. Salvaguarderebbe l'alleanza con la Lega. Il Pd potrebbe ingaggiare nell'immediato una campagna elettorale con notevoli possibilità di vittoria. Non si comprometterebbe con una politica di sacrifici che dai banchi dell'opposizione avrebbe volentieri bollato come «macelleria sociale», non regalerebbe a Di Pietro (e a Vendola?) lo scettro della protesta, con l'ovvia prospettiva di scardinare un'alleanza elettorale che sembrava fuori discussione. Ecco perché, se scegliessero la strada più impervia, quella verso cui Berlusconi sta cercando di spingere il suo riottoso partito, il Pdl e il Pd dovrebbero essere accompagnati dal massimo rispetto, anche da chi commenta le cose della politica e non deve misurarsi con quell'ingrediente essenziale della politica democratica che è il consenso. Il governo politico (non «tecnico») cui potrebbero dar vita, con la spinta determinante del Quirinale e con un premier che non potrà non interpretare con il massimo rigore la missione che gli viene istituzionalmente chiesta, richiederebbe una responsabilità eccezionale in condizioni eccezionali. Un compito che forse sarà avaro di riconoscimenti, ma che rappresenterà un soprassalto di serietà e di dedizione al bene comune. Un regalo insperato, una svolta obbligata.
Nessun commento:
Posta un commento