giovedì 22 marzo 2012

IL PD E L'ASINO DI BURIDANO

Sto bollendo, ma evito di pronunciarmi sul merito della cosiddetta riforma del lavoro. In primo luogo perché ne passerà di tempo prima di arrivare - se ci si arriverà - ad un testo definitivo e solo allora si potrà parlare di sostanza. E poi perché devo resistere alla tentazione di pensare che qualcosa sia per forza buona solo perché dispiace alla Camusso e alla CGIL! Una cosa un po' infantile, però ci si può cadere. Sicuramente, il fatto che un governo possa decidere facendo a meno del DA della Camusso è qualcosa che di per sé vale oro, ma ripeto, uno, è presto per dirlo, secondo, magari la riforma è una schifezza e che sia osteggiata  anche dal sindacato vetero conservatore consola poco.
Una cosa è certa, per il PD è veramente arrivata l'ora che decida che anima debba avere, perché è veramente penoso lo spettacolo che dà da mesi a questa parte. Mi si obietterà che se Sparta piange, Atene non ride (penso al PDL) e sarebbe un'obiezione valida. Però io conosco tanta, troppa gente moderata, sostanzialmente liberale (ancorché non liberista, per fare delle distinzioni sottili) , che si fida del PD perché veramente crede che si tratti di un partito moderno, progressista e NON socialista , non statalista tout court , sia pure riconoscendo allo stato un ruolo sicuramente maggiore rispetto a quanto auspicato dagli elettori di altri lidi. In una parola, dei MONTIANI.
Indubbiamente ci sono esponenti di quel partito che la pensano sinceramente così, ma non sono né la maggioranza a livello dirigente né a livello elettorale. Alla fine della giostra, se il PD si sciogliesse, come ormai sarebbe logico che accadesse, Letta, Fioroni, Follini, Ichino, Veltroni, Franceschini (ma molto ambiguo costui), Parisi, Marini , nomi non da poco e alcuni Montiani di ferro , quanto peserebbero alle urne? Un 10% come la vecchia Margherita? Non credo di più.
Il resto, si tratta di socialdemocratici, laburisti, socialisti riformisti, ma proprio a tutto voler concedere.
Gente che quando poi si tratta di fare le riforme pensano che le uniche che si possono fare sono quelle fiscali, volte a prelevare di più ai cd. "ricchi", e con quei soldi avviare keynesianamente lavori pubblici che facciano da volano all'economia. E' un sistema che non pare funzionare più ( i debiti pubblici sono ormai sovraccarichi, e le tasse, specie in Italia, sono arrivate a livelli che strozzano le imprese e bloccano i consumi), ma a loro non importa, convinti che non funzioni NON perché sia sbagliato, ma perché non è stato applicato ABBASTANZA BENE.
Avete presente un genitore che dica sempre la stessa cosa al figlio senza che questi gli obbedisca, e che come unico accorgimento adotti di  alzare ogni volta di più la voce? Ecco, più o meno calza.
Comunque ognuno è libero di credere ai sistemi sociali che preferisce, e ai relativi apparati economici. Per questo c'è il voto. Quello che viceversa non trova spiegazione razionale, come detto, è la coesistenza all'interno dello stesso partito di due anime ormai evidentemente incompatibili.
La necessità di una decisione, di una netta scelta di campo, la illustra anche Michele Salvati nel suo pezzo odierno sul Corsera, a cui vi lascio augurandovi al solito Buona Lettura


 Si raccoglie quello che si è seminato. Per ragioni evidenti — il legame con la Cgil, ma anche convinzioni antiche di una parte della sua dirigenza — sul tema della riforma della legislazione del lavoro il Pd ha lasciato convivere al suo interno posizioni molto diverse, l’anima di Damiano e l’anima di Ichino, per ricordarne gli esponenti più noti. Come l’asino di Buridano, tra queste anime non ha mai deciso e le ha lasciate polemizzare al suo interno. Quando è stato al governo ha sempre evitato di porre il tema sul tappeto nei suoi aspetti più ostici. Quando al governo era Berlusconi, questi si è ben guardato dall’affrontare il problema: in altre faccende affaccendato, egli ha seguito la sua ben nota strategia di galleggiamento e quieto vivere. Ad affrontare il toro per le corna c’è voluto Monti, e ora il Pd è nei guai.
Questo è un brutto momento per fare «la» riforma della legislazione del lavoro. Ciò che veramente incide sulle condizioni di benessere dei lavoratori — quelli che già sono occupati e quelli che vogliono entrare nel mercato — sono i livelli e la dinamica dell’occupazione, della domanda di lavoro: quando questi sono sostenuti, ci saranno assunzioni massicce, licenziamenti scarsi, e i licenziati in un’azienda troveranno facilmente lavoro in un’altra: l’articolo 18 interessa allora a ben pochi. Le cose stanno in modo diverso quando l’occupazione è scarsa e la domanda di lavoro è fiacca, se non addirittura in regresso. È la situazione attuale e temo che sarà destinata a durare per molto tempo, perché una ripresa economica non è in vista. In questa situazione ciò che influisce sul benessere dei lavoratori sono le garanzie di sostegno del reddito nel caso non si trovasse o si perdesse il lavoro: è questo che interessa, assai più dell’articolo 18. Qui però ci si scontra con il secondo motivo che rende il momento poco adatto alla riforma: la scarsità di risorse finanziarie disponibili per un ridisegno robusto degli ammortizzatori sociali.
Ma i momenti per riformare spesso non si scelgono, si verificano, e bisogna coglierli al volo. Di una riforma che aggiornasse la nostra obsoleta disciplina avevamo un grande bisogno: non solo perché ce la chiedono l’Europa e i mercati, ma per le iniquità e gli ostacoli allo sviluppo che essa contiene. Il centrodestra e il centrosinistra che abbiamo conosciuto non l’avrebbero mai fatta e, se rimanessero gli stessi, mai la farebbero in futuro: bene hanno dunque fatto Monti e Fornero a proporla. La riforma è solo abbozzata. Alcune misure mi convincono, altre meno. Oltretutto non si tratta di un testo definitivo ed è probabile (anzi, sperabile) che il Parlamento lo discuta a fondo e dunque alcune misure vengano riformulate. E qui, forse, il Pd può recuperare in extremis quella credibilità che le sue incertezze hanno sinora appannato. Può farlo, però, solo se l’asino di Buridano decide a quale mucchio di fieno rivolgersi, se a quello riformista o a quello della conservazione sindacale: concentrarsi sull’articolo 18 e definire la sua riforma come «pericolosa e confusa», come ha fatto D’Alema, non è un buon segno. Così come non lo è avanzare l’argomento della sacralità della concertazione. La concertazione all’italiana è stata una fase della nostra storia recente, motivata da circostanze eccezionali e ci voleva un governo frutto anch’esso di circostanze eccezionali per ribadire un principio costituzionale ovvio: che il governo ascolta e discute con i rappresentanti degli interessi — e questo governo ha ascoltato e discusso —, ma poi propone al Parlamento un testo legislativo. E il Parlamento decide.
 

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