sabato 31 marzo 2012

A TARANTO GLI OPERAI HANNO SCELTO: MEGLIO L'INCERTEZZA DEL TUMORE CHE LA CERTEZZA DELLA MISERIA.

Il sindacato è contro la manifestazione. Dice che gli operai sfilano sotto il ricatto del "padrone", per paura delle Black List. Interrogato, uno dei manifestanti spiega: "vi pare possibile minacciare 8.000 persone? E come? Comunque, a me non mi ha minacciato nessuno".
E' accaduto ieri a Taranto, gli operai sono quelli della ILVA. i quali difendono la "loro" fabbrica, contro gli ambientalisti e i sospetti che la stessa sia causa di tumori per chi ci lavora e per la zona circostante.
Io ovviamente non so se sia così, saranno le perizie in Tribunale (quelle della procura le prendo sempre con grande beneficio d'inventario, ormai è così, a ciascuno i suoi pregiudizi...) a rispondere a questi gravissimi dubbi. Certo è tragico ascoltare le parole di quegli operai che manifestano sfidando tutti...pur di non perdere il lavoro, in questa Italia così avara nell'offrirne, sono pronti a rischiare : meglio l'incertezza del tumore che la certezza della miseria. 
Però la gestione della vicenda da parte dei sindacati, lo scollamento evidente tra loro e la base, mi sembra prova evidente di come sempre di più i rappresentanti di prima abbiano perso contatto con i secondi.
Non è una notizia, lo si sapeva da tempo. Da quando al nord tantissimi operai non votavano più per la sinistra , preferendo la Lega.
E' il prezzo di chi , stando dietro comode scrivanie, si è dimenticato dei problemi e delle preoccupazioni reali di coloro che doveva difendere e rappresentare, riempiendosi la bocca di ideologia vuota e di slogan ormai privi di significato. Come quello sull'art. 18.
Ecco la notizia riportata dal Corriere della Sera nel bell'articolo di Goffredo Buccini 

TARANTO IL PROCESSO SULL'ACCIAIERIA E I TUMORI.
 LA BATTAGLIA DEGLI AMBIENTALISTI
La marcia degli ottomila per l'Ilva
Gli operai ignorano il veto sindacale: «Se chiude siamo alla fame» I periti: l'esposizione continuata agli inquinanti fa morire ancora

TARANTO - I compagni gli marciano attorno e lo sfottono: «Dai, parla per noi, Alessa'!». E Alessandro Mancarella nella sua tuta blu dice che è incavolato come una belva: «Pure assassini di bambini, ci hanno chiamato! Mi hanno chiesto: e se tuo figlio s'ammala per colpa dei vostri fumi maledetti? Beh, io rispondo che lo dovrei curare, e dunque dovrei lavorare il doppio, senza soldi non li possiamo curare i nostri figli».
Si schiarisce la gola, il manutentore meccanico Mancarella, 34 anni, da dieci all'Ilva. Ha pubblicato una lettera dignitosissima sulla Gazzetta del Mezzogiorno («difendo il mio lavoro, non chi mi paga») e molti lo cercano, adesso, gli manca solo la consapevolezza per essere leader di questi operai senza classe operaia, monadi senza un'idea del noi : «Dicono che il padrone ci ha minacciato per mandarci qui a manifestare? Abbiamo timbrato il cartellino e ci hanno fatto uscire, è vero. Ma guardati attorno, siamo migliaia: le puoi minacciare migliaia di persone? Me, non m'hanno minacciato».
Otto del mattino, ponte girevole, snodo tra la Taranto Vecchia e moribonda e la Taranto nuova e stuprata. Sfilano in massa i lavoratori dell'Ilva: con gli operai ecco gli impiegati, i capi e i capetti, quelli del Sil, la «polizia interna», gente delle cokerie, degli altiforni, tute verdi e beige e rosse assieme a quelle blu, in ottomila su undicimila dipendenti della grande acciaieria dei Riva. Sfilano per difendere la loro fabbrica dal rischio del sequestro chiesto a suo tempo dai carabinieri del Noe. Dalle ordinanze durissime del sindaco Stefano. Dagli ecologisti militanti e dai cittadini qualsiasi che chiedono soltanto un'aria migliore. Sfilano contro il timore che il padrone si stufi di tante grane e porti la produzione chissà dove. «Vedi, io non vorrei morire di cancro, ma neppure di fame», ci dice un veterano, trent'anni di «area a caldo»: «Ma il cancro è solo eventuale; se l'Ilva chiude, la fame invece è sicura».
Così oggi gli operai sfilano ignorando il sindacato che aveva detto no a questa «manifestazione padronale»: «Meglio fidarsi del padrone che ci dà il pane», ci dicono i giovani, ormai tanti, coi piercing e i tatuaggi esibiti, la voglia di scappare via appena possibile dall'inferno preso in eredità dai padri. Era dai tempi del Pci che non si vedeva tanta gente in strada tra piazza Castello e il Lungomare, ma adesso non c'è uno straccio di bandiera rossa, questa Marcia degli ottomila - piaccia o no - è tutta nel segno della famiglia Riva, che intanto annaspa sotto una montagna d'accuse a due chilometri da qui, davanti al gip Patrizia Todisco, nel tribunale protetto dai carabinieri e assediato dagli ambientalisti: 91 morti in sette anni solo nei quartieri Borgo e Tamburi, dicono i periti della Todisco. La grande acciaieria ha ucciso e uccide ancora, dicono, inquinando le falde, avvelenando l'erba e gli animali, intossicando gli umani, nonostante gli interventi degli ultimi anni e i soldi spesi per metterci una toppa. L'incidente probatorio si chiude cristallizzando atti d'accusa che peseranno eccome nelle decisioni finali, questa è anche una marcia della disperazione.
E dunque gli operai sfilano anche contro Stefano e la Todisco: «Dopo tutti a casa del sindaco e del gip», scrivono sugli striscioni l'uno uguale all'altro, serigrafati e inappuntabili, che certo sanno tanto di manina aziendale. Sfilano quasi sfidando la legge, derubricando a perizie di parte le conclusioni dei tre professori di chiara fama scelti dalla giudice: «L'esposizione continuata agli inquinanti emessi dall'impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi dell'organismo che si traducono in eventi di malattia e morte». Si raccoglie dalle sette del mattino davanti alla portineria A il popolo di questa fabbrica grande due volte la città che oggi invade la città. Dicono che l'azienda paghi anche gli straordinari, oggi, chiudendo persino un occhio sulle coperture fisse, le «comandate»: di certo un turno di notte viene soppresso per facilitare la partecipazione. Fuori ci sono pullman del trasporto provinciale. «Li ha pagati uno del Sil, della sicurezza Ilva», giura un sindacalista a fine giornata, chissà. Per due ore i pullman fanno la spola dalla fabbrica a piazza Fontana, sfornano migliaia di tute multicolori. «Noi l'abbiamo fatta la nostra manifestazione, quattro giorni fa, con tutt'altro significato», sbotta corrucciato Vittorio Massanelli, vicecommissario della Fim-Cisl.
Erano in duemila. Adesso in ottomila snobbano il sindacato e il suo veto. «Tanti sindacalisti sono corrotti, tanto vale stare coi padroni», dicono, senza esibire prove, molti ragazzi in tuta blu. «Magari fossero corrotti, vorrebbe dire che contano ancora qualcosa», ridacchia amaro un padre nobile delle lotte anni Sessanta, sotto anonimato. Massanelli sbuffa: «E va bene! Se in ottomila ci voltano le spalle vuol dire che non contiamo granché. Soprattutto se chi manda gli operai in piazza ha il potere di metterli sulla black list ».
E ci sarà pure, la lista nera. Ma tra gli ottomila del corteo che per ore gira in centro si respirano dramma e realtà. Stride il confronto con la scena surreale che si consuma nelle stesse ore dietro le transenne del tribunale. Duecento ragazzi. Centri sociali e liceali, vaghi, rabbiosi e entusiasti. «Noi l'Ilva non la vogliamo», scrivono con lo spray sui loro striscioni. «Ma ai suoi operai ci teniamo», aggiungono, come fosse possibile comporre l'ossimoro. Almeno loro ci sono. I sindacalisti Uilm, per dire, stanno chiusi all'Appia Palace a dibattere di «compatibilità»: «Il ballo di Versailles mentre cade la Bastiglia», mormora Fulvio Colucci, autore di Invisibili , un bel volume su questo dramma collettivo. Alessandro Marescotti, ambientalista di lungo corso in corsa alle Comunali, spicca grigio tra gli studenti e gli antagonisti, e ammonisce che per prima cosa bisogna vietare la raccolta delle lumache attorno all'Ilva, «sai, mangiano le foglie inquinate!». Vallo a spiegare a quegli operai in corteo che, accidenti a loro, gli ricordano tanto i «cafoni di Fontamara»: le lumache, ragazzi, occhio alle lumache.

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