lunedì 2 aprile 2012

POVERO SI PUO'. A PATTO CHE LO SIA ANCHE TU!

Esce la notizia che 10 italiani da soli cumulano la ricchezza di tre milioni di connazionali, ovviamente poveri.
E gli alti lai si levano immediatamente. Come se la povertà dei secondi dipendesse dalla ricchezza dei primi....
Probabilmente, il problema nasce dal fatto che di ricchi ce ne dovrebbero essere di PIU', se veramente vogliamo ottenere una società con MENO poveri!
Purtroppo la rivoluzione francese, molto esaltata in Europa, laddove migliori e meno sanguinose (meno crudeli forse sarebbe dire meglio) erano state quelle inglese e americana che l'avevano preceduta, ha enfatizzato troppo le parole egalitè e fraternité insieme al concetto di libertè . Questo, ha fatto si che rispetto ai paesi di impronta più prettamente anglosassone , nell'Europa centro meridionale si sia affermato un forte pensiero socialista , dove i principi di solidarietà e uguaglianza - la cui realizzazione veniva affidata ad un forte papà-stato - hanno avuto nettamente la prevalenza su quelli di libertà.
Sono scelte, e laddove esistono le democrazie, vengono espresse col voto. Che però POI deve essere rispettato. Non che se magari emerge una maggioranza che vota una legge che non mi sta bene, io poi creo il caos sociale perché non la voglio (capito sigg. Landini e Camusso?). Lo sciopero va bene, il disordine, la violenza, la paralisi produttiva NO. Perché sono un SOVVERTIMENTO della democrazia:  cercare di imporre con la forza ad una maggioranza non violenta e moderata il proprio modello di società.
Detto questo, il concetto di uguaglianza , come quello di solidarietà, non rappresentano principi negativi ovviamente, ma bisogna vedere fin dove li si spinge. Uguaglianza dei punti di partenza o di quelli di arrivo?
Sono entrambe due utopie ma le differenze sono assolute. Da ciascuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi meriti o secondo i suoi bisogni?
La prima risposta è liberale, la seconda, lo sappiamo, è quella marxista.
Da noi in Italia già avevamo il pauperismo cattolico, una volta finalizzato a far accettare al popolo le proprie condizioni di assoluto disagio;  l'avvento del pensiero socialista ha portato, non immediatamente ma nel tempo, con la nascita del partito popolare e poi la sinistra DC, ad una brutta commistione tra le due forze, dando vita a quel consociativismo catto-comunista per il quale la disuguaglianza sociale non si combatte attraverso la maggior apertura possibile della società, dando la possibilità a tutti di migliorare, di crescere,di ARRICCHIRSI ANCHE (udite udite!!!) ,  ma attraverso l'appiattimento. Quello che ben è stato rappresentato nell'Europa dell'Est per 50 anni: tutti uguali, tutti medio poveri (fatta eccezione ovviamente per la burocrazia più altolocata ).
In fondo, mal comune mezzo gaudio no?
Che tristezza....
DI questo tema tratta oggi anche Davide Giacalone, il cui pensiero mi torvo spesso a condividere.
Buona Lettura

Ricchezza e diseguaglianza

Lo sviluppo porta con sé l’attenzione alla ricchezza, alla sua produzione. La recessione porta con sé l’ansia per la diseguaglianza. Come se avesse un senso economico il rosicante proverbio: mal comune mezzo gaudio. Temo che sia per questa ragione che l’occasion paper della Banca d’Italia, dedicato a “Ricchezza e disuguaglianza in Italia”, desti più interesse per la seconda che per la prima cosa. Molti titoli si concentreranno sui dieci italiani più ricchi, che posseggono quanto i tre milioni più poveri, salvo fare poca attenzione a che la sperequazione della ricchezza è, in Italia, minore che altrove. Ancora una volta, insomma, il moralismo prenderà il sopravvento sull’esame della realtà e sulla convenienza.
Proprio questo studio, del resto, chiarisce, nelle sue tabelle finali, che secondo gli italiani, senza significativa distinzione di collocazione regionale o reddituale, uno dei compiti principali dello Stato dovrebbe essere quello di limitare la disuguaglianza, laddove, invece, credo che questa sia una sana riproduzione di quel che la natura suggerisce, salvo che il compito di istituzioni sane e di società dinamiche è evitare che la disuguaglianza sia ereditaria, dovuta a privilegi e inespugnabile. Insomma, l’indice di libertà non è dato da poca disuguaglianza, ma da alta mobilità. Il nostro, invece, resta un Paese parrocchiale, come l’eco dell’occasion paper provvede a confermare.
Leggendolo se ne traggono motivi di preoccupazione, ma non sono legati all’impossibile e nocivo egualitarismo. L’andamento del risparmio è divenuto negativo, e questo contrasta con una delle caratteristiche strutturalmente positive degli italiani. I risparmi diminuiscono non perché aumenta la dissolutezza, ma perché scema la capacità di produrre ricchezza. Se si guarda la ricchezza media pro capite (dato da maneggiare con tutte le precauzioni suggerite da Trilussa, circa il pollo che mediamente gli sarebbe toccato e che, invece, altri mangiano al suo posto) si conferma che il nostro è un Paese ricco, sicché la recessione è dovuta più a errori e a depressione che non a strutturale incapacità di girare la frittata. Ma se si guarda al rapporto fra la ricchezza e il prodotto interno lordo si coglie una rottura verso il basso, collocata nella seconda metà dello scorso decennio, che interrompe una lunga e continua crescita. Se, però, si guarda a quello stesso rapporto dopo averlo depurato dal debito pubblico si constata che la crescita continua, senza quel peso. Ciò dimostra che quel maledetto debito è un problema con il quale non si convive, che va affrontato e ridotto, ma che farlo per via fiscale significa rassegnarsi a un progressivo impoverimento collettivo. Che, se accompagnato alle gnagnere contro la disuguaglianza, finirà con il generare una dottrina pauperista dell’uguaglianza, un gusto perverso del cilicio fiscale, una sbavatura vendicativa contro la ricchezza, un rutto olezzante contro il mercato. Il senso di questo studio ci riportano laddove continuiamo a battere: il debito va colpito in modo secco, con le dismissioni di patrimonio pubblico non valorizzato e non produttivo. Altrimenti ci strangoliamo in un gioco sadomaso.
Altro dato preoccupante è quello dell’età: nel 1987 erano più ricchi i giovani e le persone fino a cinquanta anni, oggi sono più ricchi quelli dai cinquanta in su. Da una parte conta l’invecchiamento medio, certo, ma conta molto di più il fatto che diventare ricchi è sempre più difficile, dato che il fisco penalizza in modo dissennato chi guadagna a sufficienza per potere accumulare e puntare alla ricchezza. La pressione fiscale sui redditi crea povertà e conduce all’egualitarismo della miseria. Un bel successo penitenziale, ma anche una bella cavolata collettiva. In questo stesso studio si apprezza il fatto che il peso della tassazione sui patrimoni, mobiliari e immobiliari, sia aumentato, ed è concettualmente giusto, ma a patto che diminuisca quello sul reddito prodotto. Quella che considero con terrore, invece, è l’ipotesi che si voglia valutare non ulteriormente tassabile il reddito (e vorrei vedere), rifacendosi sulla ricchezza. Tale stolta teoria porta solo a spostare ricchezza dalle famiglie allo Stato, trasformando la spesa in improduttiva e togliendo libertà ai singoli. Sembra una politica di giustizia, invece è una pratica da giustizieri.
Torniamo al dato che avrà gran successo mediatico: i dieci italiani più ricchi posseggono quanto i tre milioni più poveri. Il moralismo guarda ai dieci, la razionalità ai tre milioni. Il fisco giustiziere punta alla decina, una politica di sviluppo si occupa delle milionate. Convenienza vuole che si viva in un mondo in cui i cretini siano progressivamente separati dalla propria ricchezza, sicché il capitale circoli. Giustizia vuole che chiunque possa puntare ad entrare nella decina, possibilmente allargandola. L’egualitarismo, piuttosto, vuole che tutti si sia cretini, ed è facile comprendere che, in quella situazione, ci vuol poco a essere anche più poveri.

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