venerdì 25 maggio 2012

UOMINI VIOLENTI. ALCUNI CHIEDONO AIUTO


Invito amici ed amiche a leggere questa inchiesta lodevolmente svolta dal Corriere della Sera, che cerca di studiare in maniera seria e approfondita il problema della violenza degli uomini sulle donne, mogli, compagne, a volte figlie.
Non è solo la , scontata, condanna, è anche il cercare di capire per vedere cosa fare.
A me hanno colpito molto alcuni racconti, che sono riportati.
In uno, LUI ringrazia la ex compagna, che riesce a convincerlo a rivolgersi ad un centro per farsi aiutare.
L'altro che narra del masochismo - non saprei come altrimenti definirlo - di LEI che in tutti i modi , attraverso attacchi verbali, ritorni da lui che la caccia, pone se stessa a rischio.
E sì perché c'è anche questo dietro esplosioni di violenza : atteggiamenti vessatori, incastri vittima - carnefice dove ad un certo punto non è più possibile distinguere i ruoli, che psicologicamente si alternano. Certo, poi quello che alza le mani è l'uomo, ma questo assolve ogni donna ?
Prima leggete


 Non sono tutti uguali. Gli uomini che usano violenza sulle donne popolano una zona d’ombra della nostra società che dobbiamo cominciare a (ri)conoscere. Ci sono ancora i padri-padroni, che s’aggrappano con la forza dei loro muscoli alla tracotanza di un potere millenario e anacronistico. C’è una minoranza di uomini con disturbi psichiatrici, che andrebbero diagnosticati e curati. Ci sono gli irriducibili che picchiano, schiavizzano, in alcuni casi uccidono e non si chiedono nemmeno il perché. Sono solo la punta dell’iceberg, quella che più facilmente finisce sulle pagine dei giornali o in un commissariato di polizia. Sotto, si cela una moltitudine di uomini che insultano, tirano sberle, maltrattano con piccole angherie quotidiane o periodici raptus le proprie mogli, compagne, amanti, a volte anche le figlie. Chiedendosi magari il perché ma senza riuscire, da soli, a fermarsi. E il finale tragico è sempre in agguato.
Accanto alle storie-confessioni raccolte in questa pagina, abbiamo chiesto a quattro esperti di aiutarci a comprendere cosa avviene nella mente di questi uomini e, se possibile, come aiutarli (in altri post pubblicheremo le interviste integrali).
«Dietro questa violenza c’è spesso una fragilità che non si riesce a riconoscere. Serve un nuovo linguaggio per spiegarla, ormai siamo al patriarcato di terza generazione, molto più subdolo e sottile. Nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un’incapacità di stare nella relazione, di gestire conflitti, solitudini, paure d’abbandono», spiega Roberto Poggi, counsellor e animatore de Il Cerchio degli Uomini, associazione di volontari di Torino che da anni ha uno sportello d’ascolto per il disagio maschile. «Se un terzo delle donne italiane dichiara di aver subito violenza, significa forse che il 25-30% degli uomini sono delinquenti e che queste donne sono vittime incapaci di togliersi da una relazione di violenza? E’ impossibile. Esiste un sommerso enorme in Italia, che richiede un cambiamento profondo nelle relazioni, nella capacità di saper gestire i conflitti».
Nella stragrande maggioranza dei casi è la donna a uscire con le ossa (o la mente) rotte da conflitti di coppia che degenerano nella violenza, nel chiuso delle quattro mura domestiche. «L’assunto di molti uomini è: io non sono violento, la colpa è sua, è lei che mi esaspera: E dunque la mia violenza è soltanto punizione, vendetta». Stefano Ciccone, 48 anni, fondatore dell’associazione nazionale Maschile Plurale, riflette su relazioni e stereotipi di genere e in particolare sul “rancore degli uomini” (nel libroSilenzi, Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini, edizioni Ediesse). «Un rancore che fa leva su un disagio diffuso, reale e lo interpreta in un modo distorto», aggiunge Ciccone. Il rancore nasce dalle dolorose vicende di separazione, dalla rappresentazione paranoica di un femminismo persecutorio, dal risentimento per lo stesso potere seduttivo delle donne che svela tutta la fragilità maschile».
Un disagio che in Italia spesso non trova risposte adeguate. Lo ammette Marina Valcarenghi, psicoterapeuta di formazione junghiana e presidente di Viola, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza. «Sul piano psicoterapeutico attualmente non c’è niente, salvo qualche iniziativa sperimentale (fra cui la mia, durata nove anni nel carcere di Opera, a Milano), sia per mancanza di soldi, sia per disinteresse delle istituzioni, sia anche per la latitanza della mia categoria professionale che troppo spesso non riesce a distinguere fra la ripugnanza morale e il compito terapeutico». Anche lei conferma che, nella maggior parte dei casi, non si tratta di uomini malati: «Non si tratta di riabilitare né di guarire; l’obbiettivo è indagare le cause che hanno lasciato emergere l’istinto violento e disattivato i freni inibitori».
La necessità di non lasciare soli questi uomini è ribadita con forza dal dottor Massimo Lattanzi, coordinatore nazionale del Centro Presunti Autori, che invoca una svolta nelle politiche per contrastare violenza e stalking: «Nel triennio 2009/2011 hanno lasciato sul campo circa 400 vittime tra bambini e donne assassinate e uomini suicidi. Nel 95% dei casi il contesto è quello delle relazioni interpersonali, l’episodio che le scatena la separazione, l’abbandono o il rifiuto. Dopo il cosiddetto “colpo di abbandono improvviso” i presunti autori non possono fare a meno di ricontattare e avvicinare la propria vittima, una forma di craving simile a quella vissuta dai dipendenti da sostanze o gioco d’azzardo. Senza un percorso continueranno ad agire anche dopo le misure cautelari», spiega. Per spezzare questa catena è necessario educare gli uomini a una nuova socializzazione, accompagnarli verso modalità più rispettose di relazione. «Nel 70% dei casi il nostro protocollo ha evitato recidive meglio delle misure cautelari. Il muro invalicabile della denuncia o di una misura cautelare è vissuto come ulteriore rifiuto e può produrre gesti molto gravi. Gli strumenti devono essere quelli di una giustizia di tipo riparativa, non solo punitiva, altrimenti il ciclo della violenza non si chiuderà».
Posizione che non trova molti consensi tra gli altri esperti. Come sintetizza Poggi, «la denuncia è uno strumento che serve, perché contiene e ferma la violenza». Una misura d’emergenza come, su tutt’altro piano, le tecniche che insegnano a contenere gli accessi di rabbia. «Poi, per ottenere un cambiamento, bisogna lavorare a lungo, con altri strumenti».
Reimparare l’abc delle relazioni non è cosa di un giorno.
 «Sono alto 1,86, peso 80 chili e ho messo le mani addosso alla mia ragazza, che è alta 1,60 scarsi».
E’ iniziato così, con una mail al Telefono rosa, il percorso di A. per uscire dall’inferno. Da fine ottobre partecipa agli “incontri di condivisione” organizzati dall’associazione Il cerchio degli uomini e tenta di spiegare, prima di tutto a se stesso, cosa è accaduto. Parlare con il Corriere, dice, è quasi come un “confessionale: una presa di coscienza”. All’inizio, minimizza e cerca una giustificazione che non c’è:
«Urla, strepiti, calci e pugni alle porte, fortunatamente nessun danno fisico… Cioè, sì, mi sono scappati degli schiaffi…».
Due anni di convivenza, un anno di “inferno”:
«I primi episodi di violenza sono accaduti l’estate scorsa, per una crescente tensione tra noi due dovuta alla sua gelosia: “Dove sei stato, cosa hai fatto, non è vero”…A un certo punto sembrava che le tensioni fossero superate, lei ha cominciato una terapia psicologica. Però le crisi hanno cambiato obbiettivo. Invece della gelosia, era la mancanza di attenzione o il mio presunto scazzo… Non credo di essere una vittima innocente, però mi trovavo con le spalle al muro. Ho vissuto ansie di controllo, pensavo “speriamo che non si infastidisca per qualche futile motivo”…».
A. ci tiene a raccontare subito il quadro di un rapporto di coppia uscito ormai dai binari e il suo passato irreprensibile – «sono cresciuto in una classica famiglia monoreddito degli anni Settanta, madre casalinga, tante cugino, non ho problemi con il sesso femminile» – quasi a negare “queste brutte esperienze”.
Poi, lentamente, racconta la dinamica della violenza.
«Quando abbiamo chiuso, poche settimane fa, non riuscivo a farla smettere di venirmi contro. Lei al solito si metteva quasi distesa sul divano, gambe e braccia incrociate, riempiendomi di invettive, che non erano solo insulti… tu sei un bastardo, un uomo di merda, la tua parola vale nulla… io cercavo di risponderle… Può essere un crescendo quasi rossiniano, nei mesi, dalla preghiera al “basta” urlando con la schiuma alla bocca. E poi non bastava più neanche quello, e prenderla per le spalle e cominciare a scuoterla. Una volta mi è partito un ceffone, l’ultima l’ho presa, l’ho stretta al muro, scuotendola, solo che io sono grande e grosso, lei è piccolina e delicata. Il giorno dopo aveva le ecchimosi sulle braccia e rincarava la dose. Una volta mi è scappato uno schiaffo, un’altra l’ho presa per i capelli in bagno di fronte allo specchio e l’ho proprio terrorizzata. Sono cose che mi fanno stare malissimo. Avevo una rabbia per la sua irragionevolezza, per il fatto che non riuscissi in alcun modo a trovare un contatto. In una relazione se non c’è un minimo di complicità, come si fa? L’ultima volta l’ho praticamente sollevata di peso dalla collottola e dai pantaloni e l’ho buttata fuori di casa. La sera prima mi aveva fatto una scenata, le avevo detto che era finita, che non ne volevo più sapere, che non ero più padrone delle mie reazioni. E il giorno dopo si è ripresentata chiedendomi scusa, dicendomi questa è l’ultima volta… lì non ce l’ho fatta proprio più. Avevo le lacrime agli occhi, pianto isterico, l’ho mandata via in malo modo. Sono cose brutte da vivere».
Si è mai chiesto perché nonostante la violenza la sua compagna tornava?
«Lei mi ha detto, a caldo, per non interrompere la relazione».
E la sua compagna non le ha mai messo le mani addosso?
«Sì, la signorina alla fine uno schiaffone o un tentativo di colpirmi i genitali un paio di volte lo ha fatto. Ma non ne tengo conto. Perché da un punto di vista fisico purtroppo ho una grossa responsabilità. Non avevo più la capacità dialettica di farle fronte e quando mancano le parole non sai più cosa fare».
A. non è stato denunciato, la sua relazione è finita. Ora è il tempo di fare a se stesso molte domande:
«Dovrò imparare a convivere con una parte di me che non conoscevo, a conoscerla, a capire che cavolo è, se è davvero mia, se si ripeterà».


1 commento:

  1. Avevo appena letto l'interessante articolo sul giornale. Bravo per averlo postato. A mio avviso la risposta alla tua ultima domanda è NO ma questo non giustifica MAI la reazione violenta e questo vale sempre. La violenza nei confronti di una persona fisicamente più debole genera un'ovvia repulsione ma in qualunque altro caso è sempre indice di turpitudine e di estrema debolezza intellettuale. Il violento NON ha mai ragione e, alla fine dei conti, è sempre moralmente un perdente. In altra sede ti racconterò un episedio che rese ai miei occhi mio padre (nonché tuo nonno) un eroe. UNCLE

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