Piuttosto sconsolante l'articolo del Professor Panebianco, pubblicato in prima pagina dal Corriere della Sera.
In poche parole, dice il bravissimo editorialista di via Solferino, dobbiamo prendere consapevolezza che l'Italia da sola non ce la può fare. Non ce l'ha fatta mai, sostanzialmente. E quindi il fatto di avere una sovranità limitata, il dover sempre rendere conto almeno in parte a tutori esterni, non solo è nella nostra storia ma è anche meglio. "Discoli" come siamo, che ci sia qualcun altro che ci osservi, sorvegli e quando esageriamo ci rimetta in riga è buona cosa.
Ora, questa cosa è anche vera, ma quanto è brutto leggerla.
UNA QUESTIONE NON
SOLO ECONOMICA
Moneta unica e democratica
La crisi dell'euro ha rilanciato anche in Italia la tesi,
che circola qua e là con sempre maggiore insistenza, secondo cui un'eventuale
uscita dalla moneta unica, ancorché drammatica, sarebbe pur sempre meno
dolorosa di una agonia prolungata e senza sbocchi. Meglio, pensano alcuni, fare
da soli, tornare alla lira e alle svalutazioni competitive del passato,
piuttosto che continuare a precipitare, senza reagire, nell'abisso in cui la
crisi dell'euro sta trascinando l'Europa. Persone stimabilissime, da Paolo
Savona ad Antonio Martino, lo pensano e lo dicono. Fermo restando che, di
sicuro, l'infallibilità non ci appartiene, è però lecito ipotizzare che se
l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un
simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi
politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che
verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia
potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa
integrità dello Stato nazionale.
Possiamo discutere quanto vogliamo sul vizio d'origine della
moneta unica, una moneta non sorretta da quella unificazione politica che tanti
oggi invocano pur sapendo che essa non è comunque a portata di mano. Ma il fatto
è che, quali che siano stati gli errori commessi, giunti a questo punto, la
fine dell'euro avrebbe forti probabilità di risolversi, per contraccolpo, in
una catastrofica dissoluzione di quasi tutto ciò che è stato costruito in
sessanta anni di integrazione europea. E l'Italia si ritroverebbe nelle
condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo.
Si può naturalmente pensare che ci sia molta esagerazione
nella tesi secondo cui l'Italia necessitava prima e necessita oggi di
stringenti vincoli esterni. Si può pensare che sia addirittura offensivo, o
magari antipatriottico, dipingere un'Italia minorenne, incapace di gestirsi da
sola, senza tutori e imposizioni esterne. Ma una più attenta osservazione della
nostra storia postbellica nonché delle condizioni presenti del Paese, dovrebbe
consigliare maggiore prudenza. Il patriottismo è un'ottima cosa ma a patto che
non renda ciechi.
Per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia
italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il
rapporto con l'America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue
tradizioni e della sua cultura politica. Senza bisogno di spingersi a sostenere
che, durante la guerra fredda, la democrazia sopravvisse in Italia nonostante
quelle tradizioni e quella cultura politica, non può essere negato il
potentissimo ruolo stabilizzatore che ebbero le costrizioni esterne.
Oggi, il rapporto con un'America sempre più lontana non
funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. È rimasta
solo l'Europa. Venisse meno anche quest'ultimo vincolo, che accadrebbe
all'Italia? Si considerino due aspetti (che, sono, ovviamente, fra loro
connessi): la condizione in cui versa la nostra democrazia politica e le
vistose crepe che esibisce lo Stato nazionale.
Per quanto riguarda la democrazia, basta leggere le cronache
quotidiane: classe politica delegittimata, disaffezione di porzioni ampie
dell'opinione pubblica nei confronti del Parlamento e di altri fondamentali
istituti democratici, rischi gravi di ingovernabilità una volta che si sia
chiusa la parentesi del governo detto tecnico. Nonché la noia infinita di una
discussione sulle «urgentissime» riforme costituzionali che si trascina
sterilmente da trenta anni (dagli anni Ottanta dello scorso secolo) e minaccia
di durare per altri trent'anni. Quanto questo eterno discutere senza sbocchi
operativi, senza costrutto, abbia contribuito a usurare linguaggi e simboli
della democrazia è difficile stabilire.
Altrettanto grave, e forse ancor più grave, è la condizione
in cui versa lo Stato nazionale. Dopo centocinquanta anni di unità, il
fallimento è evidente: la grande questione italiana, la questione meridionale,
non ha mai trovato soluzione. La frattura Nord/Sud è più viva e forte che mai
e, con essa, la distanza che separa certe regioni del Sud dal Nord d'Italia.
Con la differenza che, un tempo, la speranza di venirne a capo mobilitava
intelligenze, cervelli. Oggi non più. Non esiste più un pensiero meridionalista
degno di questo nome. È subentrata la rassegnazione. Se verrà meno il vincolo
europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in
forme incontrollabili?
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