venerdì 13 luglio 2012

LA STATOLATRIA: L'OPPIO MODERNO DEI NON ADULTI ITALIANI

Dopo Romano, Turani, Polito, Panebianco, Baldelli, ecco che all'elenco ormai lungo di opinionisti di spessore che ci ricordano come gli italiani siano molto bravi a individuare sprechi e privilegi altrui e a dimenticare i propri, aggiungiamo oggi Enrico Bedeschi.
Il tema è sempre quello : i tagli necessari alla spesa pubblica non solo per diminuire il debito esistente ma per ridurre il fabbisogno di questa "famiglia Italia".
A me fa un po' ridere amaro sentire i discorsi sullo stato sociale "Intoccabile". Ma questa gente a casa propria come fa?? C'è per caso qualcuno che non vorrebbe per sé e i propri figli una casa grande, comoda, nel verde, una scuola bella, attrezzata, con ottimi insegnanti, la possibilità di vacanze in bei posti sia d'inverno che d'estate, we itineranti nei bei borghi italiani, attività sportive e ludiche di livello, gadget elettronici di ultima generazione, auto, moto e motorini per tutti i gusti ? Però per la maggior parte delle persone solo alcuni di questi desideri sono realizzabili e purtroppo, per una folta minoranza, NESSUNO.
Per avvicinare la popolazione a un benessere maggiore non siamo stati capaci di diventare più produttivi e quindi più "ricchi", ma abbiamo scoperto che ci si poteva indebitare.
Privatamente, per fortuna, gli italiani lo fanno per lo più solo per la casa e per la macchina (anche se sono in crescendo i prestiti per le vacanze!!!), e questo fa sì che mentre il nostro debito pubblico è altissimo, quello privato sia molto più basso rispetto a quello di altri stati europei. Se i parametri , e quindi le "pagelle" dell'Unione Europea fossero misurati sul bilancio COMPLESSIVO dei singoli Stati, e quindi considerando il valore congiunto di deficit pubblico e privato, ecco che l'Italia diventerebbe improvvisamente tra i paesi virtuosi , lasciandosi dietro per esempio Francia e Inghilterra.
Questo naturalmente non vuol dire che stiamo bene, solo che gli europei, e quelli dell'area mediterranea più degli altri, stanno accorgendosi che il debito pubblico non è un'entità astratta ma è anche NOSTRO, dei singoli cittadini. Hanno iniziato aumentando le tasse, reintroducendo quelle sulla casa, alzando l'IVA, le accise sui carburanti e altri, numerosi balzelli, meno evidenti ma TANTI.
Ora diminuiscono i "servizi", iniziando dagli sprechi evidenti. Se io voglio l'edicola sotto casa, devo pregare che quel giornalaio abbia abbastanza clienti da tenerla lì, se no dovrò spostarmi dove c'è, e la stessa cosa vale per i piccoli tribunali e ospedali. Eppure in tanti protestano perché glieli hanno tolti.
Sono certo che a quelli che strillano gli dicessero,"te li lasciamo, ma tu contribuisci con 1000 euro in più l'anno" quelli risponderebbero in coro "noi già paghiamo le tasse!" Bene cari signori, quello che pagate, che è già TANTISSIMO, pure NON BASTA. Dunque?
Insomma, nella STATOLATRIA di cui parla giustamente Bedeschi, gli italiani quando si tratta di cosa pubblica non ragionano più secondo buon senso, misura tra ciò che vorrei e ciò che è possibile, ma immaginano che esista una sorta di Entità Suprema e Superiore, dalle risorse INFINITE, che DEVE provvedere a tutto quanto io non sarò in grado di procurarmi.
Una regressione all'età infantile, dove i genitori erano onnipotenti.
Pare che sia arrivato il momento di tornare a crescere.
Buona Lettura


Noi italiani complici degli sprechi tendiamo invece ad assolverci

La gravissima crisi economica che, partita dagli Stati Uniti, ha investito l'Europa, mettendola a durissima prova, dovrebbe costituire, io credo, un «momento di verità» di fondamentale importanza per noi italiani. Il nostro Paese, infatti, dopo tutte le «manovre» fatte finora a suon di imposte (con relativa recessione), e con i tagli ragguardevoli della spesa pubblica, decisi dal governo per decreto, «non è ancora in sicurezza», per usare la formula che si sente negli ambienti della Presidenza del Consiglio. 
Ma come si è arrivati a questo punto? Per la voracità dei partiti e della classe politica, si è risposto da parte di molti (donde l'ondata di «antipolitica» che ha investito il Paese). Non sarò certo io a dire che questa risposta sia del tutto priva di fondamento. Basti pensare alla incredibile vicenda delle province. Cancellandone 25 e riorganizzandone una sessantina, si potranno fare risparmi per 2,5 miliardi (di euro) l'anno. Ma, vien da chiedersi, quanto si sarebbe risparmiato se questa operazione fosse stata fatta alcune decine di anni or sono, invece di creare province sempre nuove? Per non dire che (come ricordano benissimo i più anziani fra noi), quando furono istituite, nel 1970, le Regioni a statuto ordinario (con i loro Consigli regionali, con la loro spesso pletorica macchina burocratico-amministrativa), proprio in previsione dei loro costi enormi, Ugo La Malfa chiese la soppressione delle province. La chiese invano, naturalmente, perché i partiti (tutti i partiti), già inebriati dalla prospettiva di mettere le mani sul pingue dominio delle Regioni, a tutto pensavano meno che a rinunciare alle province. E sulle responsabilità dei partiti e della classe politica (della Prima e della Seconda Repubblica) nell'accumularsi del nostro folle debito pubblico (che è la causa principale di tutti i nostri guai), si potrebbero addurre infiniti esempi. Detto ciò, però, non credo che il ruolo dei partiti e della classe politica sia l'unico argomento di cui tener conto nella disamina del disastro che affligge il nostro Paese.
Gli italiani sono molto bravi ad autoassolversi, e molto abili nell'attribuire tutte le responsabilità ai politici (da loro eletti). Senonché, mi sembra difficile che si possa negare che vasti strati della popolazione italiana, interi ceti sociali, hanno contribuito a scavare la fossa nella quale siamo poi precipitati. Basti pensare che nel nostro Paese, per una infinità di tempo, sono state date milioni di pensioni a persone che non avevano nemmeno sessant'anni; pensioni, naturalmente, senza adeguata copertura contributiva (dunque a carico della collettività), concesse a individui ancora vitalissimi, pronti a esercitare una nuova attività e a fare concorrenza (sleale) ai giovani sul mercato del lavoro. A tutti coloro che mettevano in guardia verso questa dissennatezza venivano dispensate le più fiere rampogne da coloro che contavano (politici, ma anche sindacalisti, opinionisti ecc.): chi metteva in discussione le «pensioni di anzianità» (questa la formula ipocrita che copriva pensioni date a persone ancora nel pieno delle loro forze) era un bieco reazionario, insensibile a tutte le ragioni dell'«equità sociale». Bisogna aggiungere che le «pensioni di anzianità» trovavano il più largo consenso nel Paese.

E ancora: quanto si sarebbe risparmiato se i tagli, giustamente voluti dal ministro Severino, di decine di piccoli tribunali, di piccole procure, di centinaia di sezioni giudiziarie distaccate, fossero stati fatti alcune decine d'anni or sono? E si tratta di risparmi per 51 milioni (di euro) in tre anni, in un Paese che non trova risorse per la ricerca scientifica!

I tristi esempi potrebbero continuare. Ma da essi emerge indiscutibilmente un punto. La connivenza di larghe fasce della popolazione, di interi ceti sociali, con un sistema economico-amministrativo basato sul privilegio, sul vantaggio personale incassato a scapito della collettività, sullo spreco, sulla dilapidazione della ricchezza prodotta dalle categorie laboriose del Paese.

È fuor di dubbio che in questo dissesto i partiti e la classe politica hanno responsabilità enormi. Ma è altrettanto fuor di dubbio, io credo, che gli italiani, o gran parte di essi, dovrebbero fare un esame di coscienza e chiedersi se per caso essi non siano complici della rovina che oggi colpisce in primo luogo le giovani generazioni. Una complicità dovuta fondamentalmente, io credo, alla mentalità che predomina nella maggior parte dei nostri concittadini: una specie di statolatria, come la chiamava il filosofo liberale Guido De Ruggiero, cioè la convinzione che lo Stato sia una specie di Provvidenza terrena, alla quale si può attingere sempre e tranquillamente, indipendentemente dai nostri sforzi e da quello che produciamo. Una convinzione che, aggiungeva De Ruggiero, costituisce la forma più degenerata dell'idolatria moderna.

Nessun commento:

Posta un commento