Cosa ne penso lo trovate esposto nell'articolo di cui sopra.
Appresso la lettura integrale del pezzo di Taino, che merita.
Buona Lettura
«Li azzanneremo al polpaccio fino a quando non avranno
capito», ha assicurato l’umorista francese Bruno Gaccio. Lo prometteva a
Stéphane Hessel, l’autore del famoso saggio Indignatevi! e si riferiva alla
gamba di coloro che non comprendono la necessità di essere audaci in questi
tempi difficili. Non solo audaci: anche molto anti-mercato e statalisti. Sarà
in effetti meglio che gli altri, i liberali, badino al polpaccio e scaldino i
muscoli, perché la sfida è lanciata.
Tornare a dividersi è un bene. Le risposte «tecniche»,
intese come neutrali, alla crisi drammatica che investe l’Europa — secondo
alcuni l’intero pianeta — non esistono. Può esistere un governo tecnico, che si
fa carico di gestire una fase critica. Qui siamo però di fronte alla crisi
acuta di una malattia cronica: per uscirne serve un momento di rottura con il
passato, e questo può arrivare solo da un forte mandato popolare su un progetto
di cambiamento, non da aspirine, tamponi o, peggio, da olio di serpente, come
sembrano essere parecchie proposte «creative» di questi giorni. Occorrono idee
su cui litigare e ricostruire le politiche e la politica.
I nuovi keynesiani l’hanno capito prima di altri, o almeno
si sono buttati nella mischia in anticipo. Vogliono un new New Deal.
L’avanguardia europea di questo Nouvelle Donne, almomento, è francese, esaltata
dalla vittoria presidenziale di François Hollande ma anche non soddisfatta dei
programmi limitati che il socialista si è portato all’Eliseo. Michel Rocard, ex
primoministro di François Mitterrand, sta cercando di porsi come punto di
riferimento di questo movimento ad alta gradazione pessimistica e radicale
nelle soluzioni. A 81 anni ha dato vita al collettivo «Roosevelt 2012», un
gruppo di dibattito e di pressione che vede un Moment Roosevelt come l’inizio
di una ricostruzione neo-keynesiana della Francia e dell’Occidente.
Il nucleo dei fondatori comprende intellettuali come Hessel,
Jean Daniel (l’inventore del «Nouvel Observateur»), i filosofi Edgar Morin e
Cynthia Fleury, il sociologo Robert Castel e anche l’ex calciatore Lilian
Thuram. Soprattutto, l’anima teorica del movimento è Pierre Larrouturou, 48
anni, economista socialista, già collaboratore di Rocard: ha pubblicato un
pamphlet ora edito anche in Italia da Piemme, intitolato Svegliatevi! (il punto
esclamativo sta diventando il timbro di questa nuova sinistra un po’ ispirata
al movimento Occupy e un po’ alle posizioni del Premio Nobel americano Paul
Krugman, che nei giorni scorsi ha lanciato, assieme a Richard Layard, un
manifesto per mobilitare gli economisti neo-keynesiani).
Il punto di partenza del collettivo «Roosevelt 2012» sta
nell’analisi della drammaticità della crisi, vista come degenerazione
«neo-liberista» del capitalismo. «Le nostre società devono scegliere: la
metamorfosi o la morte», sostengono Morin e Hessel. Sull’economia mondiale sta
per scatenarsi «una tempesta di inaudita violenza», scrive Larrouturou, forse
già nel 2016. Le nubi che si addensano sono i debiti, la disoccupazione, le
crisi energetica e climatica e alimentare, ovviamente il disorientamento
europeo, la possibilità che «gli Stati Uniti cadano in una recessione di
portata storica», la probabilità che la bolla immobiliare cinese scoppi e i
mandarini di Pechino reagiscano in modo autoritario se non addirittura con il
ricorso «a una guerra per distogliere l’attenzione dal problema». Deglutite
pure, perché poi Larrouturou ci conforta: ciò che la politica (neo-liberista)
ha provocato, la politica (neo-keynesiana) può correggere con una svolta da new
New Deal, con un nuovo «compromesso fordista».
Il programma del collettivo, esposto da Larrouturou, consta
di 15 punti che Hollande farebbe bene a realizzare nei primi tre mesi di
presidenza, per dare uno choc all’economia non diverso da quello che Franklin
Delano Roosevelt diede nei suoi primimesi in ufficio, nel 1933. Innanzitutto,
il mettere fuori gioco imercati finanziari. La Banca centrale europea, per
dire, dovrebbe stampare denaro, darlo a tasso zero a certe istituzioni come la
Banca europea per gli investimenti o alle Casse depositi e prestiti, le quali
poi li girerebbero a tassi dello 0,02 per cento agli Stati. I quali
smetterebbero così di pagare interessi sul debito quando devono rifinanziarsi. Larrouturou
non lo dice, ma così i governi potrebbero indebitarsi a piacere, come accadeva
prima del «divorzio» tra banca centrale e Tesoro e la banca era costretta a
monetizzare il debito.
Occorrerebbero poi un’imposta europea sui dividendi, una
nuova tassa sul reddito, una lotta senza quartiere contro i paradisi fiscali,
la riduzione del tempo di lavoro per avere meno disoccupati, una tassa sulle
transazioni finanziarie, il divieto alle delocalizzazioni produttive,
investimenti nell’edilizia abitativa, una dichiarazione «di guerra ai
cambiamenti climatici», un nuovo modello di sviluppo basato sull’economia
sociale e solidale, maggiori redditi al lavoro e infine un’Europa democratica
fondata su un trattato sociale. Tutto ciò in Francia come modello per il resto
delmondo: «L’unica soluzione — scrive Larrouturou — è che un Paese mostri, non
in teoria ma in pratica, che si può uscire dalla crisi verso l’alto». Una nuova
versione del socialismo in un Paese solo.
Se in un mondo del genere non volete vivere, sappiate che
non sarete soli. Se la critica radicale al modello di capitalismo che ha
portato alla crisi di oggi è difficile da evitare, non è però detto che debba
essere keynesiana nella lettura e un nuovo New Deal nelle conclusioni. A un
Roosevelt Moment, per dire, nel dibattito e nello scontro politico si oppone un
Thatcher Moment: rottura comunque, come la Iron Lady fece nella Gran Bretagna
di fine anni Settanta, ma non a favore di più Stato. Ormai addentro al quinto
anno della crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti, il dibattito su cosa è
successo sta infatti diventando abbastanza chiaro. Da un lato indignati,
neo-keynesiani e sinistre europee e americane vedono nella deregulation
iniziata negli Anni Ottanta l’origine dei guai che hanno portato a uno
strapotere del Big Business e agli squilibri della globalizzazione. Dall’altra,
economisti e intellettuali liberali vedono nella collusione tra Stato e grandi
banche e mega-imprese la nascita di un sistema anti-mercato che in molti
settori ha annichilito la concorrenza e creato un capitalismo monopolistico di
Stato.
Il lato affascinante di una lettura liberale della crisi sta
nel fatto che il principale responsabile della svolta statalista iniziata nei
secondi anni Novanta sia un liberista in teoria tutto d’un pezzo, Alan
Greenspan. Di fronte al gonfiarsi delle bolle, prima quella delle dot.com poi
quella immobiliare e infine quella dei debiti, l’ex presidente della Federal
Reserve ha immesso nel sistema per anni enormi dosi di liquidità, che hanno
ulteriormente gonfiato le bolle. In un delirio di onnipotenza, applaudito da
Wall Street, dalle super-banche, dai petrolieri e dal mondo dei grandi affari,
ha creduto di potere dominare i mercati, di abolire i cicli e di creare il
nuovo paradigma della crescita continua. È insomma diventato una specie di
pianificatore sovietico fino a quando, come a Mosca tra il 1989 e il 1990, il
suo sistema non è crollato. La finanza, che sotto la protezione di Greenspan si
era arricchita a dismisura, è stata poi salvata con il denaro dei contribuenti
e il cerchio si è chiuso in un’alleanza perversa tra establishment economico e
Stato.
Qual è tra le due letture la più vicina alla realtà? Dalla
risposta a questa domanda dipenderà probabilmente la strada che prenderà
l’Occidente nei prossimi anni. Chi riuscirà, in altre parole, a ridurre le
bolle che si sono create, da quella del debito a quella immobiliare?
L’impostazione neo-keynesiana — in parte di Hollande e in parte di Barack Obama
— che vuole creare prima di tutto occupazione e redistribuzione dei redditi
attraverso un ruolo dirigista dello Stato? Oppure il rigore — a suo modo
liberale e limitativo del ruolo pubblico — di Angela Merkel, per quanto sia
faticoso coniugare Germania e liberalismo? Sarà un duello di zanne e di
polpacci.
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