A questo tema ha dedicato un puntuale articolo il "nostro" Davide Giacalone, che come di consueto riporto integralmente.
Buona Lettura
Parole e fatti
Le parole di Mario
Draghi non risolvono alcun problema, ma chiariscono qual è quello più grosso e
urgente: il vuoto istituzionale che c’è dietro l’euro. Il presidente della Banca
centrale europea aveva parlato domenica scorsa, affermando che l’euro sarebbe
stato difeso “senza tabù”. Era già un’affermazione chiara e forte, salvo il
fatto che i mercati l’hanno ignorata, considerandola non credibile. I toni
successivi sono stati drammatici, con l’accenno all’uso di ogni mezzo, con
l’essere disposti a tutto. Cosa significa? Senza l’accordo tedesco quasi nulla,
o, comunque, nulla più di quel che si è già visto. E non ha funzionato. Con
l’accordo tedesco, ma senza modifiche dei trattati, significa che la banca
centrale è pronta a compare titoli di stato, o a finanziare chi sia indotto a
farlo. Un farmaco sintomatico assai forte, capace di far scemare i morsi della
crisi, ma non certo di risolverla: gli acquisti inseguiranno le vendite, fino
al punto in cui finiranno i soldi o non si potrà produrne. Ci si troverebbe
punto e a capo, ma più poveri.
Draghi ha tenuto
fermo un punto: dall’euro non esce nessuno. Ha fatto bene, è così. Se si lascia
che anche uno solo esca, sebbene piccolo, sebbene su un viottolo sterrato, per
quel varco verranno spinti i più grossi, fino a trasformarlo in un’autostrada.
Delle due l’una: o si difende l’euro nell’attuale composizione, oppure lo si
abbandona. Ma questo porta a un altro problema: difenderlo a spese di quanti
finiscono nel mirino della speculazione non si può, per quanto grandi possano
essere le loro colpe; difenderlo mediante acquisti di titoli, come abbiamo
visto, serve a poco; difenderlo mediante federalizzazione delle politiche
fiscali, che comportano cessione di sovranità, è sensato, forse vincente, ma
richiede modifiche dei trattati. Questo è il punto.
Il fatto che i
mercati abbiano reagito alle parole di Draghi, questa volta, prendendole sul
serio e ritenendole sufficienti a far diminuire (non è cessata affatto) la
pressione dimostra, infine, che il problema europeo è un problema politico. Se
solo un’istituzione parla a nome di tutti e dice cose chiare ecco che si
sprigiona la potenza dell’area più ricca del mondo, quella in cui si vive meglio
e in cui i cittadini sono i più benestanti. Ma subito dopo ci si accorge che
l’autorità parlante non è politica, che non ha i poteri per fare quel che dice,
che quel percorso virtuoso è possibile solo se c’è il consenso di almeno i tre
Paesi che contano di più (chiedo scusa per l’affermazione istituzionalmente
scorretta, ma sappiamo tutti che è così): Francia, Germania e Italia. Non
appena quel consenso è messo in dubbio, o anche solo non tempestivamente
confermato, ecco che la suggestione svanisce.
Oggi e domani i
mercati saranno chiusi, ma già nella notte di domenica si riapriranno le danze.
Entro quel momento si deve avere la forza e la lucidità di un gesto politico.
Ad esempio la convocazione di un vertice cui invitare Draghi. Si può, con
azzardo, pensare di poterlo fare con più calma, sperando che le aggressioni non
ripartano subito o che si possa imbrigliarle nuovamente. Ma è stolto supporre
di poterlo evitare, come se le parole sostituiscano i fatti. Perché se di
questo ci si illude, se di questo si prova a illudere i mercati, resterà vero
che nessuno esce dall’euro, ma perché l’euro esce dalla storia.
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