mercoledì 25 luglio 2012

STATO - MAFIA: IL TEOREMA DI PALERMO MEGLIO DI UN ROMANZO

I magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Immagino che il nuovo romando di De Cataldo s'ispirerà alla suggestiva ricostruzione della trattativa tra Stato e Mafia così come viene riportata da Bianconi , il D'Avanzo (insieme alla Sarzanini) del Corriere della Sera, esperto di complotti in materia giudiziaria.
Io, nel leggerlo, dopo le prime righe ero basito...ma come faceva sto giornalistucolo a sapere certe cose?? Poi invece lui spiega che si tratta dell'idea dei procuratori di Palermo....
Ok, allora, il teorema è suggestivo, anche tristemente plausibile, ma restano due grossi quesiti irrisolti:
1) quali le prove di questa ricostruzione? Lo vedremo, forse.
2) il reato di "trattativa" non esiste, però, se non ho capito male, il teorema sarebbe che coloro che hanno operato come intermediari tra lo Stato (ricattato) e la Mafia, sarebbero complici di quest'ultima. In questo sono coinvolte persone che contro la Mafia hanno non solo combattuto ma anche riportato successi importanti, come il comandante Mori.
Quando leggo queste cose, mi viene spesso in mente il senso di fastidio che provo quando leggo che un nostro soldato muore in missione all'estero, e una procura della Repubblica apre un fascicolo in Italia...
Sbaglierò, ma a ma sembra una distorsione della REALTA': come se TUTTO, ma proprio tutto nella vita, potesse trovare un risvolto e riscontro nel codice penale.
Esistono ALTRI tipi di responsabilità, a volte anche più gravi, di quella del codice! Se a Nassyria decine di nostri soldati sono morti per un camion pieno di esplosivo che è saltato all'interno del nostro avamposto, ma la Procura di Roma che minchia c'entra?? Se degli ufficiali, responsabili della difesa, hanno mancato per colpa o negligenza ne risponderanno nel LORO ambito. Al limite anche davanti alla Procura MILITARE. Ma che c'entra quella civile?
Esistono cose come il segreto di Stato, esistono i cosiddetti servizi, si sa che c'è una linea GRIGIA, tra legalità e illegalità, di cui ogni Nazione NON può fare a meno per la propria sicurezza e quella prevalente della maggior parte dei cittadini. La fiducia nella gestione di questi delicati settori deve essere POLITICA, non potrà MAI essere giudiziaria.
Che abbiano agito per la ragion di Stato, nell'inchiesta penale non conta; anche un reato commesso con le migliori intenzioni resta tale.
La pensate anche voi così? Io assolutamente NO. 
La gente deve sapere strilla Di Pietro (mi sa che sta male sul serio però poveraccio, in Tv lo vedo sempre più pallido e affaticato....). La gente era in grado di decidere se Moro dovesse essere lasciato morire o salvarlo ? NO, evidentemente, perché uno Stato non si guida con le emozioni, di pancia.
Quindi mi lascia molto . molto perplesso questa indagine che a molti, non solo a me che non sono nessuno, suona come una inchiesta POLITICA più che giudiziaria. La volontà non di accertare reati, ma dimostrare che se trattativa vi fu, non avvenne per una disgraziata debolezza dello Stato che si scoprì impotente nell'arginare l'offensiva criminale e preferì negoziare una sorta di tregua, ma per una collusione tra certi politici e i mafiosi.
In realtà, come abbiamo scritto, l'obiettivo era altro e consueto: Berlusconi. Era lui il tramite scelto dai mafiosi per corrompere le istituzioni! Lui il successore di Andreotti...
Poi purtroppo si sono accorti che le date NON coincidevano, ma la frittata era fatta, e sono andati avanti.
Magari, il Berlusca uscito dalla porta, lo facciamo rientrare dalla finestra incastrando Dell'Utri....
Questo il fantasioso articolo sul Corsera di oggi


TRATTATIVA STATO-MAFIA 
PALERMO - L'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario, quello sul «carcere duro» per i mafiosi varato all'indomani della strage di Capaci, c'entra, ma fino a un certo punto. O meglio, da un certo punto in poi, e solo per un pezzetto. La trattativa è cominciata prima, ed è continuata dopo. Aveva obiettivi più ampi e complessi. Serviva a stabilire un nuovo patto di convivenza tra lo Stato e Cosa nostra, come quello che aveva resistito fino al 1992.
In passato il garante dei boss era stato Giulio Andreotti, ma all'inizio degli anni Novanta appariva usurato e non più affidabile. Nel suo governo era arrivato a lavorare perfino Giovanni Falcone, direttore generale del ministero della Giustizia chiamato dal Guardasigilli socialista Claudio Martelli che nell'87 era stato beneficiato dai voti pilotati dalla mafia. Aveva tradito, Andreotti. E per questo Riina, Provenzano e gli altri padrini decisero di voltare pagina. Non prima di decapitare definitivamente il suo potere uccidendo Salvo Lima, l'eurodeputato che gli faceva da luogotenente in Sicilia. Era il 12 marzo 1992. La trattativa per ridefinire l'accordo tra la politica e la mafia nella Seconda Repubblica cominciò allora.

È il quadro disegnato dalla Procura di Palermo nella richiesta di rinvio a giudizio per il reato di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato»; in questo caso il governo, ricattato dai mafiosi per ottenere «benefici di varia natura», tra cui la modifica di alcune leggi, la revisione del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino, un migliore trattamento per i detenuti. La minaccia avevano già cominciato a metterla in pratica con l'omicidio Lima: una «strategia di violento attacco frontale alle istituzioni».

Subito dopo quel delitto uno degli imputati di oggi - l'allora ministro democristiano Calogero Mannino, uno dei successivi bersagli già designati - si attivò per salvarsi la vita. E attraverso contatti con investigatori e uomini dei servizi segreti cercò di individuare gli interlocutori giusti per «aprire la trattativa e sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra» per scongiurare altri attentati. Poi arrivò la strage di Capaci in cui saltò in aria Falcone con sua moglie e gli uomini della sicurezza, e «su incarico di esponenti politici e di governo», i carabinieri del Ros (Subranni, Mori e De Donno) contattarono l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, «agevolando così l'instaurazione di un canale di comunicazione con i capi di Cosa nostra, finalizzati a sollecitare eventuali richieste».

Nel frattempo ci furono il cambio di governo (e di ministro dell'Interno, da Scotti a Mancino) e la strage di via D'Amelio che tolse di mezzo Paolo Borsellino, informato dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino. Non dagli stessi carabinieri, però, che avevano ritenuto di lasciarlo all'oscuro. L'ipotesi, già avanzata dalla Procura di Caltanissetta nella nuova inchiesta su quella strage «anomala», è che Borsellino avrebbe rappresentato un ostacolo alla trattativa.

Nella ricostruzione dei pubblici ministeri di Palermo, lo Stato fu vittima di un'estorsione. E di fronte al ricatto di altri morti, gli uomini delle istituzioni aprirono un negoziato con gli estorsori. Capita spesso, nelle terre di mafia. Quando si paga il «pizzo» chi subisce la richiesta e paga è «parte lesa», ma chi fa da intermediario e diventa latore delle minacce (o addirittura sollecita le richieste dei taglieggiatori) viene considerato complice del racket. Allo stesso modo, gli esponenti del governo ricattato restano le potenziali vittime, mentre gli anelli intermedi della catena sono ritenuti corresponsabili insieme ai mafiosi. Che abbiano agito per la ragion di Stato, nell'inchiesta penale non conta; anche un reato commesso con le migliori intenzioni resta tale.

Ecco perché sono finiti sul banco degli imputati Mannino, i carabinieri e infine Marcello Dell'Utri: una vecchia conoscenza di Cosa nostra che, secondo l'accusa, subito dopo l'omicidio Lima «si propose come interlocutore di Cosa nostra» e in seguito, quando il suo amico e capopartito Silvio Berlusconi diventò presidente del Consiglio nel 1994, «agevolò materialmente la ricezione della minaccia».

L'indagine palermitana si ferma a questo punto, quando un nuovo quadro politico fu raggiunto e - forse - anche un nuovo equilibrio politico-mafioso. In mezzo avvennero le stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma, con le pressioni per alleggerire il «41 bis» e il «segnale di distensione» lanciato dal ministro della Giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, che non rinnovò il «carcere duro» per oltre trecento detenuti. Tra cui pochi o pochissimi esponenti di spicco di Cosa nostra, ma questo è un dettaglio. Era un segnale, per l'appunto, e come tale doveva essere interpretato.

Su questo punto la Procura ritiene che Conso non abbia detto la verità quando ha riferito i motivi per cui prese quella decisione, ed è stato messo sotto inchiesta per false informazioni al pm, insieme all'ex direttore generale delle carceri Adalberto Capriotti. Come le vittime del racket che negano il ricatto. Nei loro confronti l'indagine è stata stralciata, e rimane sospesa in attesa dell'esito del processo principale. Rientra invece nella richiesta di rinvio a giudizio un altro ex ministro accusato di aver mentito, Nicola Mancino. Il quale, avendo deposto al processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano (una delle cambiali pagate alla mafia nella trattativa, secondo l'accusa), risponde di una presunta falsa testimonianza: avrebbe detto bugie sui reali motivi dell'avvicendamento al Viminale e sulle informazioni ricevute da Martelli riguardo ai contatti tra i carabinieri e Ciancimino, avvenuti tramite il figlio dell'ex sindaco, Massimo. Quest'ultimo imputato, nel ruolo di «postino» tra suo padre e Provenzano, di concorso in associazione mafiosa.

Questa è il mosaico composto dalla Procura palermitana. Ora si va davanti a un giudice. Per stabilire se si tratta di una ricostruzione sorretta da prove sufficienti per celebrare un processo, solo un'ipotesi non riscontrabile, o pura fantasia su quel che accadde in Italia, vent'anni fa. Al tempo delle stragi di mafia. 

Nessun commento:

Posta un commento