Immagino che il nuovo romando di De Cataldo s'ispirerà
alla suggestiva ricostruzione della trattativa tra Stato e Mafia così come
viene riportata da Bianconi , il D'Avanzo (insieme alla Sarzanini) del Corriere
della Sera, esperto di complotti in materia giudiziaria.
Io, nel leggerlo, dopo le prime righe ero basito...ma
come faceva sto giornalistucolo a sapere certe cose?? Poi invece lui spiega che
si tratta dell'idea dei procuratori di Palermo....
Ok, allora, il teorema è suggestivo, anche tristemente
plausibile, ma restano due grossi quesiti irrisolti:
1) quali le prove di questa ricostruzione? Lo vedremo,
forse.
2) il reato di "trattativa" non esiste, però,
se non ho capito male, il teorema sarebbe che coloro che hanno operato come
intermediari tra lo Stato (ricattato) e la Mafia, sarebbero complici di
quest'ultima. In questo sono coinvolte persone che contro la Mafia hanno non
solo combattuto ma anche riportato successi importanti, come il comandante
Mori.
Quando leggo queste cose, mi viene spesso in mente il
senso di fastidio che provo quando leggo che un nostro soldato muore in
missione all'estero, e una procura della Repubblica apre un fascicolo in
Italia...
Sbaglierò, ma a ma sembra una distorsione della REALTA':
come se TUTTO, ma proprio tutto nella vita, potesse trovare un risvolto e
riscontro nel codice penale.
Esistono ALTRI tipi di responsabilità, a volte anche più
gravi, di quella del codice! Se a Nassyria decine di nostri soldati sono morti
per un camion pieno di esplosivo che è saltato all'interno del nostro
avamposto, ma la Procura di Roma che minchia c'entra?? Se degli ufficiali,
responsabili della difesa, hanno mancato per colpa o negligenza ne
risponderanno nel LORO ambito. Al limite anche davanti alla Procura MILITARE.
Ma che c'entra quella civile?
Esistono cose come il segreto di Stato, esistono i
cosiddetti servizi, si sa che c'è una linea GRIGIA, tra legalità e illegalità,
di cui ogni Nazione NON può fare a meno per la propria sicurezza e quella
prevalente della maggior parte dei cittadini. La fiducia nella gestione di
questi delicati settori deve essere POLITICA, non potrà MAI essere giudiziaria.
Che abbiano agito per la ragion di Stato,
nell'inchiesta penale non conta; anche un reato commesso con le migliori
intenzioni resta tale.
La pensate anche voi così? Io assolutamente NO.
La gente deve sapere strilla Di Pietro (mi sa che sta
male sul serio però poveraccio, in Tv lo vedo sempre più pallido e
affaticato....). La gente era in grado di decidere se Moro dovesse essere
lasciato morire o salvarlo ? NO, evidentemente, perché uno Stato non si guida
con le emozioni, di pancia.
Quindi mi lascia molto . molto perplesso questa indagine
che a molti, non solo a me che non sono nessuno, suona come una inchiesta
POLITICA più che giudiziaria. La volontà non di accertare reati, ma dimostrare
che se trattativa vi fu, non avvenne per una disgraziata debolezza dello Stato
che si scoprì impotente nell'arginare l'offensiva criminale e preferì negoziare
una sorta di tregua, ma per una collusione tra certi politici e i mafiosi.
In realtà, come abbiamo scritto, l'obiettivo era altro e
consueto: Berlusconi. Era lui il tramite scelto dai mafiosi per corrompere le
istituzioni! Lui il successore di Andreotti...
Poi purtroppo si sono accorti che le date NON coincidevano,
ma la frittata era fatta, e sono andati avanti.
Magari, il Berlusca uscito dalla porta, lo facciamo
rientrare dalla finestra incastrando Dell'Utri....
Questo il fantasioso articolo sul Corsera di oggi
TRATTATIVA
STATO-MAFIA
PALERMO - L'articolo
41 bis dell'ordinamento penitenziario, quello sul «carcere duro» per i mafiosi
varato all'indomani della strage di Capaci, c'entra, ma fino a un certo punto.
O meglio, da un certo punto in poi, e solo per un pezzetto. La trattativa è cominciata
prima, ed è continuata dopo. Aveva obiettivi più ampi e complessi. Serviva a
stabilire un nuovo patto di convivenza tra lo Stato e Cosa nostra, come quello
che aveva resistito fino al 1992.
In passato il
garante dei boss era stato Giulio Andreotti, ma all'inizio degli anni Novanta
appariva usurato e non più affidabile. Nel suo governo era arrivato a lavorare
perfino Giovanni Falcone, direttore generale del ministero della Giustizia
chiamato dal Guardasigilli socialista Claudio Martelli che nell'87 era stato
beneficiato dai voti pilotati dalla mafia. Aveva tradito, Andreotti. E per
questo Riina, Provenzano e gli altri padrini decisero di voltare pagina. Non
prima di decapitare definitivamente il suo potere uccidendo Salvo Lima,
l'eurodeputato che gli faceva da luogotenente in Sicilia. Era il 12 marzo 1992.
La trattativa per ridefinire l'accordo tra la politica e la mafia nella Seconda
Repubblica cominciò allora.
È il quadro
disegnato dalla Procura di Palermo nella richiesta di rinvio a giudizio per il
reato di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato»; in questo caso
il governo, ricattato dai mafiosi per ottenere «benefici di varia natura», tra
cui la modifica di alcune leggi, la revisione del maxi-processo istruito da
Falcone e Borsellino, un migliore trattamento per i detenuti. La minaccia
avevano già cominciato a metterla in pratica con l'omicidio Lima: una
«strategia di violento attacco frontale alle istituzioni».
Subito dopo quel
delitto uno degli imputati di oggi - l'allora ministro democristiano Calogero
Mannino, uno dei successivi bersagli già designati - si attivò per salvarsi la
vita. E attraverso contatti con investigatori e uomini dei servizi segreti
cercò di individuare gli interlocutori giusti per «aprire la trattativa e sollecitare
eventuali richieste di Cosa nostra» per scongiurare altri attentati. Poi arrivò
la strage di Capaci in cui saltò in aria Falcone con sua moglie e gli uomini
della sicurezza, e «su incarico di esponenti politici e di governo», i
carabinieri del Ros (Subranni, Mori e De Donno) contattarono l'ex sindaco
mafioso di Palermo Vito Ciancimino, «agevolando così l'instaurazione di un
canale di comunicazione con i capi di Cosa nostra, finalizzati a sollecitare
eventuali richieste».
Nel frattempo ci
furono il cambio di governo (e di ministro dell'Interno, da Scotti a Mancino) e
la strage di via D'Amelio che tolse di mezzo Paolo Borsellino, informato dei
contatti tra i carabinieri e Ciancimino. Non dagli stessi carabinieri, però,
che avevano ritenuto di lasciarlo all'oscuro. L'ipotesi, già avanzata dalla
Procura di Caltanissetta nella nuova inchiesta su quella strage «anomala», è
che Borsellino avrebbe rappresentato un ostacolo alla trattativa.
Nella ricostruzione
dei pubblici ministeri di Palermo, lo Stato fu vittima di un'estorsione. E di
fronte al ricatto di altri morti, gli uomini delle istituzioni aprirono un
negoziato con gli estorsori. Capita spesso, nelle terre di mafia. Quando si
paga il «pizzo» chi subisce la richiesta e paga è «parte lesa», ma chi fa da
intermediario e diventa latore delle minacce (o addirittura sollecita le
richieste dei taglieggiatori) viene considerato complice del racket. Allo
stesso modo, gli esponenti del governo ricattato restano le potenziali vittime,
mentre gli anelli intermedi della catena sono ritenuti corresponsabili insieme
ai mafiosi. Che abbiano agito per la ragion di Stato, nell'inchiesta penale non
conta; anche un reato commesso con le migliori intenzioni resta tale.
Ecco perché sono
finiti sul banco degli imputati Mannino, i carabinieri e infine Marcello
Dell'Utri: una vecchia conoscenza di Cosa nostra che, secondo l'accusa, subito
dopo l'omicidio Lima «si propose come interlocutore di Cosa nostra» e in
seguito, quando il suo amico e capopartito Silvio Berlusconi diventò presidente
del Consiglio nel 1994, «agevolò materialmente la ricezione della minaccia».
L'indagine
palermitana si ferma a questo punto, quando un nuovo quadro politico fu
raggiunto e - forse - anche un nuovo equilibrio politico-mafioso. In mezzo
avvennero le stragi del 1993
a Firenze, Milano e Roma, con le pressioni per
alleggerire il «41 bis» e il «segnale di distensione» lanciato dal ministro
della Giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, che non rinnovò il
«carcere duro» per oltre trecento detenuti. Tra cui pochi o pochissimi
esponenti di spicco di Cosa nostra, ma questo è un dettaglio. Era un segnale,
per l'appunto, e come tale doveva essere interpretato.
Su questo punto la
Procura ritiene che Conso non abbia detto la verità quando ha riferito i motivi
per cui prese quella decisione, ed è stato messo sotto inchiesta per false
informazioni al pm, insieme all'ex direttore generale delle carceri Adalberto
Capriotti. Come le vittime del racket che negano il ricatto. Nei loro confronti
l'indagine è stata stralciata, e rimane sospesa in attesa dell'esito del
processo principale. Rientra invece nella richiesta di rinvio a giudizio un
altro ex ministro accusato di aver mentito, Nicola Mancino. Il quale, avendo
deposto al processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Bernardo
Provenzano (una delle cambiali pagate alla mafia nella trattativa, secondo
l'accusa), risponde di una presunta falsa testimonianza: avrebbe detto bugie
sui reali motivi dell'avvicendamento al Viminale e sulle informazioni ricevute
da Martelli riguardo ai contatti tra i carabinieri e Ciancimino, avvenuti
tramite il figlio dell'ex sindaco, Massimo. Quest'ultimo imputato, nel ruolo di
«postino» tra suo padre e Provenzano, di concorso in associazione mafiosa.
Questa è il mosaico
composto dalla Procura palermitana. Ora si va davanti a un giudice. Per
stabilire se si tratta di una ricostruzione sorretta da prove sufficienti per
celebrare un processo, solo un'ipotesi non riscontrabile, o pura fantasia su
quel che accadde in Italia, vent'anni fa. Al tempo delle stragi di mafia.
Nessun commento:
Posta un commento