lunedì 27 agosto 2012

COME NACQUE L'INCESTO TRA GIUDICI E PM

Prima della riforma del 1989 la contiguità, l'inaccettabile colleganza tra Giudici e Pubblica accusa. era fisicamente percepibile in aula. Il Giudice, o la Corte, sullo sfondo, di fronte la scrivania della difesa, a LATO, quella del PM. Durante le pause delle udienze, Giudice e PM erano soliti ad andare a prendere il caffè insieme, si davano del TU, mentre il difensore si rivolgeva sempre con ossequio.
Con l'introduzione, mai del tutto sostanziale, del processo accusatorio, della parità tra accusa e difesa, la scrivania dei PM è stata spostata e anche l'atteggiamento con il Giudice è diventato apparentemente più attento alla forma.  Piccole cose, rispetto all'obiettivo della pari dignità e posizione.
Sul sito zona di frontiera Marsilio scrive un bell'articolo ripercorrendo, con sintesi efficace, la storia dei rapporti tra ACCUSA e GIUDICE nel tempo e la situazione odierna. Come noto, solo in Italia l'incesto si è perpetuato, mentre in nessuna delle democrazie di riferimento - Francia Germania e GB per non parlare degli USA, dove sono sia i giudici che i procuratori sono ELETTI - questa cosa si realizza.
Non è una originalità di cui andare fieri.
Buona Lettura


Nel lin­guag­gio cor­rente, gior­na­li­stico, ma anche poli­tico e per­fino tra coloro che invece dovreb­bero tenere alla chia­rezza dei con­cetti, si riscon­tra con­fu­sione sulle figure di giu­dice e di pub­blico mini­stero; tanto da inge­ne­rare diso­rien­ta­mento nell’opinione pub­blica che non è ade­gua­ta­mente infor­mata o, peg­gio, è disin­for­mata. Soprat­tutto la con­fu­sione deriva dalla man­cata cono­scenza della figura del pub­blico mini­stero nel suo aspetto onto­lo­gico e nel suo dive­nire nel corso della sto­ria, non­ché nel suo netto dif­fe­ren­ziarsi, per fun­zioni, dalla figura del giudice.

Quindi, è oppor­tuno ritor­nare indie­tro nel tempo e ricor­dare quando gli uomini lava­vano col san­gue le offese che rice­ve­vano, adot­tando il mil­le­na­rio, biblico cri­te­rio “occhio per occhio, dente per dente”. Poi venne il tempo della rifles­sione: con­ti­nuare a quel modo avrebbe signi­fi­cato l’estinzione della spe­cie umana: siamo agli albori della civiltà; non alludo all’epoca mito­lo­gica, alla nemesi nella quale la giu­sti­zia ripa­ra­trice e puni­trice era opera di una dea, figlia dell’Oceano e della Notte, divi­nità che distri­buiva a cia­scun mor­tale la sua sorte secondo il merito e a cia­scuno la sua puni­zione, secondo la colpa. Siamo, invece, ad una epoca nella quale gli uomini risol­ve­vano i loro con­flitti sot­to­met­ten­dosi ad un potere supe­rore e neu­trale, dap­prima alla tribù di appar­te­nenza, che deci­deva chi tra i liti­ganti avesse ragione e chi invece torto e, quindi, chi dovesse essere punito e come. Il con­cetto di giu­dice, rap­pre­sen­tato dalla tribù, cioè dalla intera elet­ti­vità ha attra­ver­sato i mil­lenni e lo ritro­viamo, ancor­ché ridi­men­sio­nato, nell’attuale tri­bu­nale (tri­bu­nal nel lin­guag­gio inglese), quale soggetto/organo depu­tato a risol­vere i con­flitti tra pri­vati e tra pri­vati e lo Stato, ovvero ad irro­gare san­zioni per i col­pe­voli di reato.

E’ intui­bile come nel tra­scor­rere dei secoli i con­no­tati del giu­dice abbiano subito diverse meta­mor­fosi, pur restando iden­tica la sua fun­zione di sog­getto depu­tato a com­porre con­flitti sociali e ad irro­gare pene. Già i Sumeri, alcuni mil­lenni prima di Cri­sto, si die­dero dei giu­dici e dei codici, con la fun­zione di ammi­ni­strare giu­sti­zia: è noto il Codice di Ham­mu­rabi che, però attinse al codice sumero di Uro­ka­gina, di molti secoli ante­riore. I giu­dici erano sin­goli o col­le­giali, a seconda dell’importanza della causa. In pro­sie­guo i giu­dici sono diver­sa­mente con­no­tati, a seconda del tipo di orga­niz­za­zione poli­tica della società o a seconda del tipo di pro­cesso nel quale ope­ra­vano. Abbiamo avuto figure di giu­dici pro­fes­sio­nali e di giu­dici buro­crati, figure di giu­dici inqui­si­tori e di giu­dici al di sopra delle parti, che rice­vono da que­ste il mate­riale pro­ba­to­rio sul quale sen­ten­zia­vano; abbiamo giu­dici respon­sa­bili e giu­dici irre­spon­sa­bili (come nel caso ita­liano). Ma il con­no­tato strut­tu­rale del giu­dice è restato sem­pre quello di sog­getto depu­tato ad appli­care la legge (o della norma con­sue­tu­di­na­ria) nei casi di con­flitti tra i cit­ta­dini, ovvero di irro­gare san­zioni ai col­pe­voli di vio­la­zioni defi­nite reato. In con­clu­sione, giu­dice è colui che ha la pote­stà di appli­care la legge nei casi che ven­gono alla sua com­pe­tenza (juri­sdic­tio, giu­ri­sdi­zione), com­presa il potere di appli­care san­zioni penali.
La figura del pub­blico mini­stero, che com­pare molti secoli dopo quella del giu­dice, risponde, invece, all’esigenza che il giu­dice sia messo in moto da una per­sona che rap­pre­senti una delle parti del pro­cesso: dovendo essere il giu­dice estra­neo alla lite, deve essere messo in moto da un sog­getto (l’accusatore nelle cause penali, l’attore nei giu­dizi civili). I romani espri­me­vano il con­cetto dicendo ne pro­ce­deat judex ex officio.

Dap­prima a pro­vo­care il pro­cesso era un sog­getto (l’offeso dal reato o un suo con­giunto); ma esi­ste­vano anche accu­sa­tori pro­fes­sio­nali, come nella Gre­cia pre­cri­stiana i “sico­fanti”, i quali, però, gode­vano di cat­tiva fama per­ché, avendo diritto ad una parte del patri­mo­nio dell’accusato rico­no­sciuto col­pe­vole, spesso si abban­do­na­vano ad accuse calun­niose.  Anche nell’antica Roma l’accusatore era guar­dato con sospetto, tanto che gli s’imponeva il giu­ra­mento di non ele­vare l’accusa al solo fine di nuo­cere all’accusato; e se l’accusato fosse risul­tato inno­cente l’accusatore veniva punito con la stessa pena che sarebbe stata inflitta all’accusato col­pe­vole (la legge che ciò pre­ve­deva era detta legge del taglione). A par­tire dell’età impe­riale a Roma l’accusa cessò di essere neces­sa­ria per l’apertura del pro­cesso: un dele­gato dell’imperatore aveva la com­pleta com­pe­tenza della causa, dalla pro­mo­zione alla deci­sione. Il pro­cesso aveva per­duto il carat­tere accu­sa­to­rio e si era tra­sfor­mato in inqui­si­to­rio: i ruoli di accusa e di giu­dice si con­fu­sero al cui posto suben­trò la figura del giu­dice “imperatore”.
 
Que­sta situa­zione durò parec­chi secoli fin­ché, nel tardo medioevo, non venne ripri­sti­nata la dif­fe­renza tra giu­dice e accu­sa­tore. Avvenne che l’avvocato del Re (il pro­cu­ra­tore del Re) sol­le­ci­tava il giu­dice ad ini­ziare le cause penali, per modo che le multe inflitte ai col­pe­voli potes­sero essere inca­me­rate dal Re e rim­pin­guare le casse dell’erario, sem­pre defi­ci­ta­rie a causa delle iper­bo­li­che spese dell’apparato gover­na­tivo (pro­prio come oggi). Emerge così l’istituto pro­ces­suale chia­mato “azione penale” che appar­tiene al Re ed è eser­ci­tata dal suo pro­cu­ra­tore. Ma sic­come i pro­cu­ra­tori erano tanti quanto erano i giu­dici i pro­cu­ra­tori costi­tui­rono un uffi­cio — il pub­blico mini­stero — (il par­quet), gerar­chi­ca­mente orga­niz­zato fino al Mini­stro di giu­sti­zia. E alla fun­zione di pro­mo­zione del pro­cesso penale si aggiunse, poi, quella di sor­ve­gliare che i sud­diti rispet­tas­sero le leggi, fun­zione di con­trollo che spet­tava al Re quale capo del potere ese­cu­tivo, ma che non poteva essere eser­ci­tata dallo stesso stante l’enorme esten­sione ter­ri­to­riale del Regno. Infine, a que­ste fun­zioni del pub­blico mini­stero si venne ad aggiun­gere una terza, impor­tante fun­zione, quella di sor­ve­gliare i giu­dici indi­pen­denti: si diceva che il pub­blico mini­stero era l’occhio del Governo sui giu­dici. Fu per que­sta terza fun­zione che il pub­blico mini­stero venne isti­tuito “presso” i sin­goli organi giu­ri­sdi­zio­nali (tri­bu­nali e Corti). Mon­te­squieu diceva: “noi oggi abbiamo una legge ammi­re­vole, è quella che vuole che il prin­cipe, creato per fare ese­guire le leggi, pro­ponga un fun­zio­na­rio in ogni tri­bu­nale affin­ché inda­ghi a suo nome, tutti reati…”. Si tratta, appunto, del pro­cu­ra­tore del Re con le fun­zioni indi­cate nelle leggi di ordi­na­mento giu­di­zia­rio, cioè: pro­muo­vere l’azione penale, vegliare alla osser­vanza delle leggi, vegliare alla pronta e cor­retta ammi­ni­stra­zione della giu­sti­zia (oltre ad avere azione diretta per fare ese­guire ed osser­vare le leggi d’ordine pub­blico e che inte­res­sano i diritti dello Stato).

Que­sto è l’assetto giu­di­zia­rio che, sia pure con sin­gole spe­ci­fi­cità, vige in tutti i Paesi pro­gre­diti dell’Occidente. Per il prin­ci­pio della equi­li­brata divi­sione del potere, il pub­blico mini­stero — che è, tra­di­zio­nal­mente, un uffi­cio del potere ese­cu­tivo isti­tuito presso i Tri­bu­nali e le Corti (di appello e di cas­sa­zione) — è sepa­rato net­ta­mente dal potere giu­di­zia­rio, cioè, dai giu­dici. Tut­ta­via, nel regime monar­chico giu­dici e pub­blici mini­steri for­ma­vano l’, che era una branca dell’apparato gover­na­tivo, dipen­dente dal Mini­stero di gra­zia e giu­sti­zia: Così è in Fran­cia, ma là all’interno dell’ordine giu­di­zia­rio vige la sepa­ra­zione onto­lo­gica tra giu­dici e pub­blici mini­steri, que­sti ultimi non sono indi­pen­denti come i giu­dici ma sono gerar­chi­ca­mente ordi­nati e diretti dal Mini­stro di giu­sti­zia; in Ger­ma­nia giu­dici e pub­blici mini­steri for­mano due corpi separati.

Da noi, seb­bene la Costi­tu­zione abbia ripri­sti­nato la tra­di­zio­nale sepa­ra­zione del potere giu­di­zia­rio da quello ese­cu­tivo e, quindi, l’organica sepa­ra­zione del pub­blico mini­stero dal giu­dice, ancor­ché abbia pre­scritto che il pub­blico mini­stero debba avere delle garan­zie (che il futuro ordi­na­mento giu­di­zia­rio deve deter­mi­nare). Oltre a tutto, la Costi­tu­zione all’art. 111, come modi­fi­cato dalla legge costi­tu­zio­nale n. 2 del novem­bre 1999, ha pre­vi­sto che la giu­ri­sdi­zione si attua mediante il giu­sto pro­cesso rego­lato dalla legge. Ogni pro­cesso si svolge nel con­trad­dit­to­rio delle parti, in con­di­zioni di parità, davanti a giu­dice terzo e impar­ziale.” Da parte sua, il codice di pro­ce­dura penale del 1988 aveva con­fi­gu­rato il pub­blico mini­stero nel ruolo di “parte” del pro­cesso, senza con­fu­sione alcuna con il ruolo del giu­dice e senza avere più alcun com­pito giu­ri­sdi­zio­nale, che aveva nel codice monar­chico (figura ibrida: accu­sa­tore ma in parte anche giu­dice). Per que­sto nell’immaginario col­let­tivo il pub­blico mini­stero veniva appel­lato giu­dice: il giu­dice Di Pie­tro, il giu­dice Caselli e così via.

Se sul piano giu­ri­dico costi­tu­zio­nale non v’è com­mi­stione tra giu­dici e pub­blici mini­steri, per­mane nell’ordinamento giu­di­zia­rio (di matrice fasci­sta) l’unione orga­nica di giu­dici e pub­blici mini­steri: il vero è che subiamo l’imposizione comu­ni­sta della “via ita­liana al pub­blico mini­stero” inau­gu­rata da Togliatti nel 1946. Cioè del pub­blico mini­stero, magi­strato unito al giu­dice: un ritorno al pas­sato, onde siamo una demo­cra­zia di fac­ciata, avente al suo interno una super potente magi­stra­tura seb­bene anti­co­sti­tu­zio­nale, esente da demo­cra­tici con­trolli e ren­di­conti. I rifor­ma­tori riflet­tano se aspi­rano ad una Ita­lia, al passo dei Paesi progrediti.

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