http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2012/07/la-statolatria-loppio-moderno-dei-non.html
http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2012/03/dott-befera-agivano-nella-legge-anche.html
Se avete tempo e non li avete letti, dategli un'occhiata. Valgano la pena.
Oggi il terzo articolo, che pure ho apprezzato. Confesso che non sapevo chi fosse e quindi ho controllato. Bedeschi, che è del 1939, è professore di filosofia morale all'Università La Sapienza di Roma.
Allievo di Lucio Colletti, ha avuto la sua stessa evoluzione di studi e anche di pensiero. Partito infatti dall'analisi approfondita del pensiero marxista, se ne è col tempo man mano distaccato per approdare sulla sponda del liberalismo. A volte i percorsi per arrivare alla verità sono più lunghi e tortuosi di altri...
Bedeschi, come tutte le persone non solo di intelletto ma anche di età, nel giudicare le cose e i mali d'Italia non si ferma alla famigerata seconda repubblica e al Berlusconismo, che l'ha caratterizzata (senza governarla da SOLO. Mi piace ricordare a quelli che parlano dei 20 anni che ci avrebbero condotto alla rovina, che metà degli stessi hanno visto al governo il centro sinistra).
Sa bene che le origini dei nostri mali risalgono agli anni 70 (con la fine dei 60 a fare da precursori ).
Tra questi. l'inclinazione italiana alla demagogia è uno dei peggiori .
La Democrazia, come sistema politico, ha il pregio della libertà e della - almeno teorica- partecipazione di tutti alla res sociale , ma il difetto che spesso si è ostaggio degli umori e desideri peggiori del popolo, a cui i politici più biechi solleticano la pancia con successo. Da qui il populismo, il giustizialismo , il clientelismo.
L'analisi mi pare impeccabile, ahimè. Soluzioni? Su questo il nostro è più blando, si vede che a 73 anni non lo anima più la fiducia. SI limita quindi a dire che ci si deve liberare da questa "zavorra".
E come si fa?
Buona Lettura
Prima riforma: abolire la demagogia
In uno dei capolavori del pensiero politico moderno,
Elementi filosofici sul cittadino (1642) Thomas Hobbes, in un famoso capitolo
in cui considera le tre forme di Stato (monarchia, democrazia, aristocrazia),
mette in guardia verso gli inconvenienti della democrazia, che, a suo avviso,
consistono in ciò: «In una democrazia, tanti sono gli individui desiderosi di
arricchire figli, parenti, adulatori, quanti sono i demagoghi, cioè gli oratori
che hanno presa sulle masse popolari (e più ve ne sono, più ne spuntano)».
Questo tema della demagogia come insidia principale della democrazia ha poi
avuto molta fortuna, è stato ripreso da diversi autori, ed è giunto fino ai
tempi nostri. Memorabili sono, a questo proposito, le considerazioni svolte da
Gaetano Mosca nei suoi Elementi di scienza politica : quando il corpo
elettorale è molto ampio, egli dice, i partiti devono cercare i loro suffragi
nelle grandi masse popolari, e lo fanno ricorrendo alla demagogia, cioè
sfruttando le «cupidigie», i «pregiudizi», gli «istinti più rozzi», le
«promesse impossibili da mantenere». Lungi da me l'idea che queste
considerazioni vadano prese alla lettera e accettate incondizionatamente: ogni
pensatore affronta problemi del suo tempo, e quindi va collocato, se si vuole
comprenderlo davvero, nella società del suo tempo.
Detto ciò, però, io credo che il tema della «demagogia» sia
di grande rilevanza anche nelle nostre società. È un fatto che la demagogia dei
partiti ha svolto un ruolo fondamentale in Italia anche nella cosiddetta Prima
Repubblica, e poi nella seconda. Basti pensare che il formidabile debito pubblico
che ci affligge, e che in questi tempi di grave crisi economica internazionale
è la calamità principale che ci opprime, è sorto nella Prima Repubblica, e ha
continuato a crescere nella seconda. Come ha scritto Luca Ricolfi in un suo
recente articolo, gli italiani di oggi devono far fronte al «conto di mezzo
secolo di dissennatezze della classe politica»: di tutta la classe politica,
cioè di tutti i partiti, ognuno dei quali ha dato il suo contributo al male
comune. Gli esempi che si possono addurre a questo proposito sono tanti. In un
precedente mio articolo, apparso su questo giornale, ho già ricordato come nel
1970, quando furono istituite le Regioni a statuto ordinario, cadde del tutto
nel vuoto l'appello di Ugo La Malfa (che riprendeva un monito di Luigi Einaudi)
a sopprimere le Province. I partiti furono ben lieti dei ricchi pascoli che si
aprivano loro con l'istituzione delle Regioni (che costarono somme altissime di
pubblico denaro per la costruzione delle grandi macchine burocratiche e dei relativi
servizi), e a tutto pensarono meno che ad abolire le Province, in cui già
pascolavano con grande soddisfazione.
Per aumentare costantemente il proprio consenso, e quindi il
proprio potere, i partiti ricorrevano a rovinosi provvedimenti demagogici: così
furono concesse (nel 1973) le «pensioni baby» nel pubblico impiego, con cui ci
si poteva ritirare dal lavoro sotto i quarant'anni; poi furono concesse le
«pensioni di anzianità» (che potevano essere giustificate per alcuni lavori
usuranti), durate fino all'altro ieri. «Pensioni di anzianità» fu un una
ingegnosa espressione, degna della fantasia di noialtri italiani: essa
significava che a 57 o a 58 anni si era già anziani, e che, spesso nel pieno
delle forze grazie a questa «anzianità», ci si ritirava dal lavoro, con una
speranza di vita intorno agli 80-84 anni. E poi c'era il continuo, fortissimo
incremento delle pensioni per invalidità (votate da tutti i partiti): erano
1.264.000 nel 1960, 3.415.00 nel 1970, quasi 5.000.000 nel 1975. Un numero
stupefacente di invalidi! I conti (pubblici) evidentemente non tornavano, ma ci
avrebbero pensato le generazioni future, le quali non potevano votare (e questo
era un enorme vantaggio per la demagogia dei partiti e dei sindacati).
Inoltre i partiti aumentavano continuamente la già ampia
quota di economia pubblica (afflitta da sprechi di ogni genere), che con queste
dimensioni non esisteva in nessun Paese dell'Europa occidentale. Basti pensare
che nel 1970 il settore pubblico assorbiva il 36,7% del pil (prodotto interno
lordo); nel 1980 il 43,6%; nel 1992 il 57,6%. Economia pubblica significava
libertà di assumere indipendentemente dai bilanci, e di creare nuovi dirigenti.
I costi venivano addossati al debito pubblico, il quale cresceva in modo
inarrestabile (nel 1981 costituiva il 65% del pil, nel 1985 il 92%).
Gli esempi potrebbero continuare, ma quelli già addotti sono
sufficienti, credo, a mostrare come la demagogia sia stata una componente
essenziale, strutturale, della vita della nostra Repubblica: con il risultato
disastroso con cui siamo alle prese. Il che significa che nel nostro Paese è
più che mai urgente, se si vuole davvero invertire la rotta, una profonda
riforma liberale della politica, la quale deve liberarsi della mortale zavorra
della demagogia. O i partiti sono capaci di ciò, o il nostro Paese non ha
futuro.
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