mercoledì 5 settembre 2012

ESISTONO ANCORA IMPRESE SANE. PER QUANTO?

Bella la difesa delle imprese che lavorano da parte di Davide Giacalone. Nonostante i tanti numeri negativi, il bravo opinionista di fede repubblicana (la malfiano per il rigore, un po' meno di sinistra però) ricorda che l'Italia è la terza economia dell'area UE e la seconda per forza industriale (pensa gli altri direte voi, ma sarebbe uno scetticismo eccessivo). In particolare, l'export continua a difendersi anche in questi anni terribili, magari perché avere per clienti pagatori diversi dagli Italiani (STATO in primis!!) già di per sé è cosa buona. Però poi aggiunge che, continuando il nostro paese a fare una politica anti impresa, anche queste industrie, anzi soprattutto queste che hanno già come clienti il "mondo", decideranno di trovarsi anche la sede fuori Italia. E non è che per questo ogni volta si deve andare in Cina, come bene specifica il "nostro".
Nel parlare delle imprese decotte, dei continui tentativi di salvare l'insalvabile, Giacalone ammonisce: attenzione che quello che non faremo da soli, cercando ammortizzatori utili, domani  (non lontano) saremo costretti a farlo costretti dagli altri. E sarà assai più doloroso.
In altre parole, per difendere un indifendibile presente, rifiutiamo sacrifici minori e graduali.
Il futuro sarà meno clemente.
Buona Lettura

Officina reale
Moody’s ha rivisto al ribasso le stime sulla nostra recessione, collocandola, per quest’anno, fra il -1,5 e il -2,5%. Non è un dato preoccupante in sé, anche perché erano sbagliate le stime precedenti (-1%), che noi già davamo come inadeguate. A febbraio-marzo vedevamo un anno che poteva chiudersi con un -3, sicché non ci sorprende. Né il prossimo anno si presenta, sempre secondo la medesima fonte, con il segno positivo, visto che la recessione continuerà in una previsione che va dalla crescita zero a un -1. Dati, questi, che non devono essere letti per diffondere il pessimismo e la rassegnazione, ma, semmai, la voglia di cambiare e la reazione. L’Italia è la terza potenza economica d’Europa, ma la seconda potenza industriale, dopo la Germania. Quel che allarma non è che la crisi faccia sentire i suoi morsi, ma che non si presti la necessaria attenzione all’economia reale.
Mentre la superfetazione finanziaria mette in pericolo l’economia mondiale, da noi ancora resiste l’economica reale. I dati sulle esportazioni, relativi al 2011 e al 2012 testimoniano di un’Italia che lavora e che corre, riuscendo a farsi valere con maggiore dinamicità di quanta ne dimostrino gli stessi tedeschi. Ma il resto dell’Italia, quella istituzionale e fiscale, sembra volersi accanire proprio contro quelle fabbriche e quei capannoni che ci consentono ancora di sedere fra le grandi potenze economiche. Tale condotta autolesionista non si giustifica con la necessità di garantire la sopravvivenza dello stato sociale, come molti suppongono, ma con il fatto che la classe dirigente è prigioniera di gabbie culturali asfissianti. Insomma, sono stati assai più realisti e pragmatici gli operai della Fiat, che chiamati a referendum hanno compreso le ragioni dell’impresa. Ma proprio per questo è ancora più devastante e drammatico che si possa perdere l’industria automobilistica, sempre più spinta ad andare altrove. E’ più grave perché quel disastro non potrà essere imputato ai lavoratori o ai loro egoismi, ma a un ecosistema ostile all’impresa.
Leggo, qualche volta con stupore, i piani di rilancio che il governo presenta. Sono bastati pochi mesi e l’austero governo dei tecnici s’è lasciato prendere la mano dal più logoro costume politicante, abbandonandosi agli annunci. Non solo molte cose sono destinate a restare solo carta, ma parte di quella carta segnala mancanza di senso della realtà. Prendete le società con un euro di capitale, dedicate ai giovani (la cui età può arrivare a 35 anni, legificando la morte di diverse generazioni): dopo avere creato la società, e dopo avere pagato tasse trecento volte superiori al capitale sociale, che fanno? Nessuno sarà disposto a dar loro credito e non potranno neanche stipulare un contratto per la fornitura di energia elettrica. Avranno la partita iva, che sarà certamente una grossa soddisfazione.
Forse sarebbe stato più saggio aiutarli a trovare capitale di rischio, defiscalizzarne le iniziative, creare mercato interno (anche mediante esternalizzazioni, privatizzazioni e liberalizzazioni) favorevole alle loro innovazioni (se ci sono). Invece s’è imboccata la via contabile, destinata a far aumentare i disoccupati denominati imprenditori. Grandioso.
Nel frattempo l’economia reale e produttiva, quella che esporta e ci regge in piedi, non trova ingegneri che parlino accettabilmente l’inglese e non trova lavoratori specializzati. Ma trova amministrazioni pubbliche che non pagano le fatture ed esattori che non hanno la loro pazienza, nell’attendere. In queste condizioni cosa volete che faccia un’impresa il cui mercato è il mondo? Troverà un’altra sede nel mondo. 
E guardate che non c’è mica bisogno di farsi venire gli occhi a mandorla, perché basta andare in Austria o in Svizzera, in modo da prendere la macchina e tronare a casa per il fine settimana, a mangiare le tagliatelle della mamma. In questo modo l’Italia si deindustrializza esattamente nel momento il cui dovrebbe sacrificare la spesa pubblica improduttiva per facilitare la vita alle industrie.
Vedo con commozione quel che succede ai minatori di Sulcis. Assisto con rabbia all’ipocrita solidarietà che ricevono. Qualcuno, prima o dopo, chiuderà tutto quello che non rende e campa di sovvenzioni, come il finto mercato dell’energia rinnovabile. Solo che accadrà quando non si avrà più fiato per creare altro. Quel giorno nessuno sarà in grado di governare il disfacimento. 


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