L'articolo che non ti aspetti per testata e per autore. Mi riferisco alla critica alla "Cultura di Stato " scritta da Francesco Merlo su Repubblica.
Ma niente niente che, passata l'era Berlusconiana, il giornale di Largo Focherini sia riavvicinabile ? Certo, direttore e vicedirettore sono quelli che sono (tra Mauro e Giannini, non saprei dire chi è peggio), però magari il giornale riprende uno spirito più "laico". Negli ultimi 15 anni, sono stati una chiesa etica insopportabile.
E Francesco Merlo è un sacerdote importante di questa chiesa.
Eppure oggi, postato da Alberto Bisin, un liberale autentico che pure è ospitato dalla Repubblica Bersaniana, su FB ho visto l'articolo di cui accennavo, nel quale Merlo fa suo il pensiero di un pamphlet tedesco titolato Kulturinfarkt dove viene denunciata la regressione di una cultura supportata dal solo denaro pubblico, diventando a di "massa". Quella degli slogan 68ini....in realtà, una cosa molto mediocre.
Già a suo tempo Baricco si azzardò a sfidare gli "artisti" a rinunciare al sussidio statale e a raccogliere la sfida del pubblico. Si salvò dal linciaggio ideale solo perché si chiamava Baricco.
Tempo fa, sullo stesso tema, scrisse un coraggioso articolo (http://ultimocamerlengo.blogspot.it/2012/10/si-parla-di-cultura-lottizzata-e.html ) Pierluigi Battista, che però scrive sul Corriere della Sera.
Sulla Repubblica tempio dei Radical Chic non me l'aspettavo.
Chapeau !
Cultura: troppi soldi pubblici uccidono la creatività?
Drammaticamente onerosa per il sistema fiscale già stremato,
ma anche banale, solo passato e niente futuro, la nuova decadenza, l'ultimo
tramonto dell'Occidente. Dunque secondo i quattro autori di questo
Kulturinfarkt, un robusto pamphlet di grande successo in Germania, la smisurata
offerta e il monopolio statale stanno portando le istituzioni culturali verso
il crack non solo economico. Hanno infatti generato conformismo, depresso la
creatività, "addomesticato le avanguardie", messo sotto controllo la
libertà e la modernità, disarmato la cattiveria contro il potere che viene
persino esibita "anche in politica estera" con il compiacimento del
potere stesso.
In sedici anni è quasi raddoppiato il numero delle compagnie
di prosa, di musica, dei centri di studio e delle case editrici producendo
molti più artisti che arte, più scrittori che libri...
Ma il pubblico è
diminuito, sia pure di poco, passando da quasi 23 milioni a quasi ventuno
milioni, spalmati però nelle varie proposte. E poiché "ogni allestimento
scenico viene utilizzato una sola volta, la conclusione è che a ogni singolo
spettatore, sempre lo stesso, vanno sempre più risorse di produzione". Le
cifre diventano astronomiche "ma i prezzi rimangono convenienti perché si
vogliono mantenere basse le soglie di accesso". Ogni biglietto per il
teatro dell'Opera di Zurigo, se non ci fosse un finanziamento annuale di 55
milioni, "dovrebbe costare 150 euro in più". E ci sono gli sconti, i
"biglietti famiglia", "dal 2009 i giovani al di sotto dei 26
anni entrano gratis nei musei della Francia e così pure nel Regno Unito, per
non parlare dei festival gratuiti in Svizzera e in Francia". Eppure i
prezzi per i concerti pop sono aumentati di molto, "ogni teenager sborsa
almeno 50 euro" e gli spettacoli privati estivi all'aperto "così
popolari in Germania, Austria e in Svizzera costano fino a 100 euro a persona e
fanno il tutto esaurito mentre il museo accanto, il cui biglietto costa 5 euro,
rimane vuoto". Insomma si fa demagogia, retorica sociale, circenseria, si
getta fumo negli occhi e intanto si crea una vera e propria "bolla
letteraria": "Nel 2011 ci sono stati in Germania 778 premi letterari.
Ne vanno aggiunti 881 nell'ambito dei media e della pubblicistica". Sono
tre premi al giorno, anche di cucina, tutti sovvenzionati dallo Stato alla
parola cultura "per sostenere la prestigiosa opera di scrittori ed editori
di libri: 24mila novità editoriali all'anno di letteratura dilettantesca".
Ma le vendite non sono mai sufficienti e il prodotto è
mediocre perché è mediocre l'idea che possano venire fuori i geni di stato, i
menestrelli finanziati, i poeti ministeriali: un residuo di terzo
internazionalismo e di fascismo, roba da stato platonico. E chissà come si arrabbierebbero
Leopardi o Rimbaud se sapessero che la loro eversione e il loro autismo, la
loro rabbia contro il mondo è finita sugli autobus, ad arredare il muro delle
stazioni o è diventata tarantella di piazza. L'aiuto statale espande e perpetua
anche un falso mercato delle arti. Il sostegno agli artisti è sussidio sociale,
assistenza, elemosina sotto le mentite spoglie della promozione: a Berlino il 6
per cento degli artisti sopravvive senza percepire alcun reddito, il 31 per
cento guadagna meno di 12mila euro all'anno, il 78 per cento di coloro che si
definiscono artisti di professione vive al di sotto delle soglie di povertà.
Solo il 7 per cento è inserito in un circuito produttivo e il 10 per cento ha
una galleria che espone le sue opere. "Il genio artistico vuole recare
gioia -
scriveva Nietzsche - ma quando si trova a un livello molto alto
gli manca facilmente chi ne goda: offre cibi che nessuno vuole. Ciò attribuisce
all'artista un pathos talvolta ridicolo e commovente insieme; perché in fondo
non ha alcun diritto di costringere gli uomini al godimento". Poi ci sono
gli artisti dilettanti. Il 70 per cento dei francesi si occupa di fotografia,
il 27 per cento gira filmati. Il censimento ha contato in Francia più artisti
che agricoltori.
Ma la grande assente da questa vendemmia d'arte è ovviamente
l'arte. A Berlino trovi il vino, il cibo, i libri e gli artisti stralunati, le
cantate corali e la simpatia in strada, ma non l'arte che è il contrario di
tutto questo, un atto solitario, una cattiva azione contro qualcuno o contro
tutti, una coltellata al mondo, il mezzo espressivo che porta fuori la propria
disperazione come scriveva Liu Hsin-wu, uno degli scrittori più amati del
famoso Sessantotto: "Si fa poesia o arte quando si sta male". Mentre,
aggiungeva, "quando si sta bene si fa la rivoluzione di piazza "o in
subordine il corteo di protesta, il concerto, la cantata, la festa, il festival
e la pubblica pernacchia. Le conseguenze, semplifica Cesare De Michelis
(Marsilio) introducendo l'edizione italiana, sono "i musei non visitati, i
teatri vuoti, i libri non letti ...". Anche il sottotitolo italiano,
"Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura", è più
radicale e sbrigativo di quello tedesco: "Troppo di tutto e ovunque le
stesse cose". Purtroppo le parole in Italia non appartengono infatti allo
stesso mondo. Il Kulturstaat italiano significa irragionevole incuria del
patrimonio che l'Europa ci invidia, il degrado dei siti archeologici, le
clientele al posto delle competenze, un'inefficienza che viene da lontano anche
se, certo, negli ultimi venti anni è diventata disprezzo governativo verso la
cultura ridotta con faciloneria da cummenda allo slogan delle tre "i"
(impresa, inglese, internet), perché diceva Tremonti "con la cultura non
si imbottiscono i panini", e dunque maltrattamento sistematico nelle aule
dove si costruisce il futuro e nelle vestigia dove si conserva il passato.
E in Italia lo Stato finanzia la festa del pistacchio, il
premio zucca d'argento, il pittoresco delle sagre paesane addottorate con
cattedre universitarie. La cultura assistita in Italia è la marchetta, che è
più antieconomica del pizzo mafioso. E "marchette e zoccole" è il
binomio che ha affossato la Rai, che è ancora la prima industria culturale
italiana. Ecco dunque che la cultura finanziata col danaro pubblico da noi
significa un'altra cosa ancora perché il modello del Kulturstaat all'italiana
rimanda più alla pirateria dell'isola della Tortuga che al disagio
dell'abbondanza della Germania della Merkel: noi sovraproduciamo parassiti,
loro cultura di massa. Provate adesso a immaginare come diventerebbe la Valle
dei Templi se fosse affidata alla Humboldt-Universität di Berlino o il Maxxi di
Roma se fosse gestito dalla Staatsgalerie di Stoccarda che, disegnata da James Stirling,
è il paradigma di tutti i musei che hanno l'ambizione di esser anche un centro
civico, una moderna piazza di attrazione urbana. E Pompei? Quale meraviglia
diventerebbe nella mani ricostruttrici della municipalità di Dresda, la città
che subì tre bombardamenti, un fuoco peggiore di quello del Vesuvio? Finanziata
dalle tasse, la bellezza di Dresda è di nuovo "superba" al punto che
se ne infischia dell'Unesco che nel 2007 le tolse il riconoscimento di
patrimonio dell'umanità per il ponte sull'Elba, quattro corsie, approvato con
due referendum popolari, una meraviglia di modernità e di paesaggio futurista.
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