40.000 morti in Siria non fanno molta notizia, questo ormai è chiaro. Ogni tanto qualcuno scrive appelli, viene contestata l'ignavia internazionale, il doppio pesismo per cui Gheddafi fu abbattuto e Assad continua a governare, laddove contro il primo s'intervenne per evitare il massacro di civili che il secondo perpetra regolarmente nel suo paese. Però , al di là dei veti russo-cinesi, che paralizzano apertamente azione ONU più incisive delle solite sanzioni, ormai si è capito, con la triste fine delle primavere arabe, che in quella zona NON si sa cosa fare. La democrazia, intesa come elezioni, da quelle parti ha portato l'avvento al potere dei Fratelli Musulmani, con sconfitta dei laici , dei progressisti che avevano alimentato il favore se non addirittura l'entusiasmo di noi osservatori europei. . Non ci è piaciuto. Il sospetto che dietro alla caduta di Assad ci sia Al Qaeda , e la Siria faccia la fine della Libia (paese in preda alla più grande confusione, dove le lotte tra bande e tribù continuano feroci) se non peggio, sono timori grandi che paralizzano ulteriormente l'azione occidentale. In questo contesto, l'unica VERA democrazia che esiste da quelle parti, cioè Israele, torna ad essere gravemente minacciata, e forse come mai era accaduto dal 1973, anno della guerra del Kippur . Missili cadono regolarmente sul sud di Israele, lanciati da Hamas che controlla la striscia di Gaza . Con meno intensità, ma comunque con regolarità, gli Hezbollah li lanciano dal Libano sul Nord del paese ebraico. Ai confini, l'Egitto è tornato paese ostile anche se ancora mantiene il trattato di pace costato la vita a Sadat, della Siria abbiamo detto (Israele è costretta a fare il tifo per il dittatore ) , la Giordania, unico paese "amico" ha i suoi guai e l'Iran sappiamo che tra poco avrà armi atomiche, e la sua posizione di negazione del diritto all'esistenza di Israele è nota.
In tutto questo, abbiamo il presidente USA più incerto dai tempi di Carter.
No, non vorrei essere un cittadino israeliano in questo momento....
Da leggere entrambe le analisi che riporto, scritte la prima da Davide Giacalone e la seconda da Lucio Caracciolo su Repubblica
Buona Lettura
Primavera di guerra
In Medio Oriente brontola l’inferno, e nessuno s’illuda di
poterne contenere i fuochi nel girone della striscia di Gaza o nelle città
israeliane. Ancora una volta, come nel passato, la stella di David è solo un
avamposto delle democrazie, il posto più facile da colpire. Ma questa volta,
più di altre, con i missili esplodono anche i nostri errori.
Si ritrovano nelle parole di Mohamed Morsi, presidente
egiziano, il quale, dopo essere stato in visita alla striscia, dopo avere
definito l’azione militare israeliana “una eclatante aggressione contro
l’umanità”, dopo avere assicurato che gli egiziani non lasceranno “Gaza da
sola”, ha pronunciato le parole più significative: “L’Egitto di oggi non è
l’Egitto di ieri e gli arabi di oggi non sono gli arabi di ieri”. Purtroppo
Morsi ha ragione. L’Egitto di oggi è anche il frutto della colpevole
stupidaggine con cui l’Occidente democratico si mise a festeggiare la
“primavera araba”, con il risultato che le libertà popolari sono diminuite, i
governanti amici dell’Occidente sono caduti, mentre i boia siriani, che stanno
massacrando il loro popolo, sono ancora al potere. Avvertimmo allora
dell’errore, né questo ci consola punto. Per questa ragione, quindi, i missili
palestinesi che colpiscono Israele, che hanno violato anche la città di
Gerusalemme, dobbiamo sentirli come esplosi sulle nostre case e sulle nostre
cose.
Ed ecco le conseguenze politiche: con alle spalle un Egitto
laico, in mano ad un governo che ci voleva fantasia per definirlo democratico,
ma che era migliore dell’attuale e che, soprattutto, era ancora sulla linea
Sadat-Mubarak, quindi del mantenimento della pace con Israele; avendo al fianco
una Giordania non isolata e anch’essa amica dell’Occidente; dovendo fare i
conti con l’ostilità siriana e l’instabilità libanese, era possibile che i
palestinesi si dessero una guida politica rispondente ai loro interessi, al
bisogno di non correre ogni giorno il rischio di morire ammazzati, non piegata
all’uso di Israele quale ostaggio occidentale in terra mediorientale, quindi
era possibile che Abu Mazen mantenesse la propria distanza dai terroristi
fondamentalisti di Hamas. Cambiato lo scenario, venuta meno la sponda egiziana,
Mazen può scegliere fra morire (per mano “amica”) o allinearsi ad Hamas. Ha
scelto la seconda strada. Da qui in poi l’inferno smette di brontolare e
comincia a dischiudersi. Ancora una guerra va messa nel conto. Metterla nel
conto è l’unico modo per provare a evitarla.
Il precipitare della situazione non può certo essere
annoverato fra i successi della Casa Bianca, che porta gravi responsabilità.
Noi europei non siamo da meno, a meno che non si voglia invocare l’attenuante
della deficienza politica e dell’inconsistenza istituzionale. Ma è
un’attenuante? A chi si fosse distratto ricordo che i missili indirizzati
contro la popolazione civile israeliana sono dei Fair-5, fabbricati in Iran.
Come si vede: evitare di fermare quel regime, che ha nel proprio programma la
cancellazione di Israele dalla carta geografica, non è un modo per conservare
la pace, ma per comprometterla e avviare la guerra.
Leggo che, secondo taluni, la miccia sarebbe stata riaccesa
da Israele, responsabile di avere ucciso Ahmed al-Jabari. Era capo della
brigata al-Quassam, una delle peggiori squadracce terroriste di Hamas. Non un
militare, un terrorista. Se si ritiene che queste azioni siano illegittime allora
si devono ritirare tutti i nostri militari all’estero e attendere che vengano a
colpirci direttamente sotto casa.
Nonostante la sperimentata tattica di Hamas, che nasconde i
missili e le armi fra la popolazione civile, in modo che i bambini morti siano trofei
da esibire innanzi a quegli stessi giornalisti che festeggiarono la
“primavera”, su Gaza s’è abbattuta una pioggia di 85 missili israeliani,
lanciati in 45 minuti, che ha provocato il seguente bilancio di vittime: 2
persone. Li hanno tirati in mare? No, erano mirati sui siti sotterranei da cui
Hamas conta di lanciare missili contro Israele. I bimbi e gli innocenti si sono
salvati perché, anche volendo, non puoi metterli a viverci sopra.
Una cosa deve essere chiara, a tutti noi: non siamo
spettatori, siamo parte in causa.
UN CONFLITTO SENZA SOLUZIONI
CHIEDETE a un arabo palestinese di disegnare la Palestina.
Poi chiedete a un ebreo israeliano di disegnare Israele. Confrontate i due
schizzi: quasi sicuramente avranno la stessa forma. Perché nelle carte mentali
dei due popoli le rispettive patrie occupano il medesimo spazio, tra Fiume
(Giordano, ormai un rigagnolo) e Mare (Mediterraneo).Solo, quel territorio
cambia nome a seconda dell’identità di chi lo evoca. Per il diritto di nominare
il “proprio” spazio, da oltre sessant’anni in Terra Santa si vive e si muore,
si uccide e ci si uccide. Il conflitto israelo-palestinese appartiene dunque
alla vasta categoria dei problemi senza soluzione.
In termini logici, un problema senza soluzione non è un
problema. Ma in politica, specie in geopolitica – ossia nelle dispute
territoriali – non vige la logica formale. Se poi lo scontro investe la
dimensione simbolico- identitaria, financo religiosa, come nel caso
israelo-palestinese, la ricerca del compromesso diventa chimera. È su questo
sfondo che conviene leggere l’ennesima crisi di Gaza. In apparenza, è lo stesso
copione del dicembre 2008 (Operazione Piombo Fuso). Dopo che Hamas, filiale
palestinese della Fratellanza musulmana, ha preso in mano la Striscia di Gaza,
da quel territorio (365
chilometri quadrati, oltre un milione e mezzo di anime)
partono a intervalli irregolari salve di razzi che colpiscono Sderot, Ashkelon,
Ashdod e altri insediamenti israeliani, seminandovi il panico. Gerusalemme
reagisce con raid aerei mirati. Finché, di fronte all’intensificarsi degli
attacchi missilistici, il governo non decide che è il caso di dare una severa
lezione a Hamas, in genere in vista di un’elezione alla Knesset. La deterrenza
strategica sposa la tattica politica.
In questo caso, l’appuntamento elettorale di fine gennaio 2013 ha spinto Netanyahu a
giocare la carta militare per compattare il fronte interno e cogliere alle urne
una vittoria schiacciante. L’assassinio del capo militare (dunque il capo dei
capi) di Hamas, Ahmad Jabari, ha inaugurato mercoledì scorso l’Operazione
Pilastro di Difesa. Per ora aerea, forse presto terrestre. Come Piombo Fuso.
Scadute le poche settimane che le Forze armate israeliane possono dedicare a un
conflitto su terra, ognuno tornerebbe alle basi di partenza. In attesa delle
prossime (e) lezioni.
Tuttavia l’apparenza inganna. Il copione delle provocazioni
palestinesi e delle rappresaglie israeliane sarà pure lo stesso, ma nei quattro
anni che separano Piombo Fuso da Pilastro di Difesa il mondo e il Medio Oriente
sono cambiati. E continuano a mutare, a ritmo convulsivo.
Anzitutto, gli Stati Uniti hanno perso il Grande Medio
Oriente. Dopo undici anni di guerra al terrorismo e due disastrose campagne in
Afghanistan e in Iraq, l’influenza di Washington in quella che ci ostiniamo a
definire una regione, mentre è uno spazio in rapida frammentazione, è ai minimi
storici. Sorpreso dalle “primavere arabe”, Obama si è adattato a cavalcare
un’onda rivoluzionaria che prometteva di aprire una stagione di libertà,
progresso e democrazia, scoprendo di doversi accomodare, in Egitto e non solo,
con i Fratelli musulmani, storica espressione dell’islam politico.
Allo stesso tempo, Obama si è costruito la fama di
avversario di Netanyahu, irritando il premier israeliano ma poi finendo per
accettarne l’intransigenza sul dossier palestinese e non solo pur di evitarne
(ritardarne?) l’attacco all’Iran. Tanti equilibrismi si traducono in
schizofrenia a stelle e strisce: i Fratelli musulmani che comandano al
Cairo sono okay per assenza di alternative, i loro affiliati a Gaza sono
terroristi perché così ha stabilito Gerusalemme. Ancora, dopo aver benedetto la
rivoluzione contro Gheddafi, Obama scopre che gli arcinemici del Colonnello
uccidono il suo ambasciatore in Libia e così contribuiscono a scatenare la
faida fra le agenzie di intelligence americane.
In secondo luogo, attorno a Gerusalemme non vi sono quasi
più Stati, solo territori in ebollizione, sui quali jihadisti e altri nemici di
Israele si muovono con agilità. La Siria non esiste più, è un campo di mattanza
in cui gli islamisti radicali guadagnano spazio e legittimazione. Il Libano è
scosso dall’onda d’urto della guerra civile siriana e Hezbollah continua a
minacciare con i suoi missili il Nord d’Israele. In Giordania il regime amico
trema. L’Egitto, governato dalla casa madre di Hamas, cerca di destreggiarsi
fra solidarietà ideologica ai fratelli di Gaza e interesse nazionale, che
sconsiglia lo scontro con Israele. Intanto il Sinai, penisola teoricamente
egiziana dove passa il confine con lo Stato ebraico e da cui si accede a Gaza,
è più che mai terra di nessuno – ossia di beduini e jihadisti.
Infine, l’Iran. Il nemico numero uno dello Stato ebraico.
Per Netanyahu, l’Operazione Pilastro di Difesa è un capitolo nel confronto
decisivo con Teheran. Hamas è considerato da Gerusalemme il braccio armato
dell’Iran in campo palestinese (definizione spicciativa, ma che continua a
orientare l’élite strategica e soprattutto il pubblico israeliano). I razzi che
hanno sfiorato Tel Aviv e le colonie ebraiche presso Gerusalemme sono Fajr-5 di
produzione persiana. Se Israele attaccasse l’Iran, sarebbero usati per
martellare lo Stato ebraico da sud, mentre i missili di Hezbollah colpirebbero
da nord.
Di qui l’obiettivo dichiarato dell’attacco a Gaza:
annientare il potenziale missilistico annidato nella Striscia, peraltro in
buona parte affidato a milizie più radicali e assai più filo-iraniane dello
stesso Hamas. Queste ultime, in particolare la Jihad islamica e il Fronte
popolare per la liberazione della Palestina, sono responsabili
dell’intensificarsi degli attacchi anti-israeliani ai primi di novembre, che
hanno offerto a Netanyahu l’occasione per scatenare la sua aviazione contro
Gaza. Quasi Teheran avesse deciso di provocare Gerusalemme, in vista di una
guerra che alcuni dirigenti della Repubblica Islamica considerano vantaggiosa
per la sopravvivenza del regime.
Per ora, la guerra a Gaza è limitata. Israele non intende
rioccupare la Striscia e Hamas non vuole suicidarsi nello scontro frontale con
l’entità sionista.
Ma troppi focolai sono accesi attorno a Gerusalemme. Basta poco per
incendiare l’intero Vicino Oriente e il Golfo. Nessuno potrebbe prevedere
l’esito di una guerra totale. L’unica certezza è che non risolverebbe il
dilemma arabo-israeliano, o peggio islamico-ebraico. In Terra Santa resta vero
il postulato dell’antropologo americano Clifford Geertz: “Qui la sconfitta non
è mai totale, la vittoria sempre incompleta, la tensione infinita. Tutte le
conquiste e le perdite sono solo marginali e temporanee, mentre i vincitori
cadono e gli sconfitti si rialzano”.
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