Due articoli molto diversi, quelli di Mario Calabresi sulla Stampa e di Alberto Alesina sul Corriere, a commento dell'esito delle elezioni americane, entrambi interessanti, con osservazioni condivisibili dove però l'accento viene messo su nodi cruciali diversi. Il primo, Calabresi, sulla trasformazione della demografia degli USA, con i bianchi ormai minoranza rispetto a Afroamericani, Ispanici e immigrati in genere.
Ne parlavo proprio ieri con gli amici del TPI : l'America è CAMBIATA. Non è più il paese del sogno liberale, il self made man, dove la gente immigrava per avere un'opportunità di potere, col proprio lavoro e le proprie capacità, migliorare la condizione di vita propria e della famiglia. I primi immigrati anglosassoni avevano questo spirito , non so se perché protestanti, corsari, commercianti...intraprendenti insomma. Quelli successivi, essendo netta minoranza, per integrarsi fecero propri i valori trovati nel nuovo paese (ovviamente non tutti, ma una buona parte). Con i decenni i valori demografici si sono capovolti e i bianchi non sono più maggioranza. Così se anche Romney cattura il voto della stragrande parte degli stessi (il 60%), ecco che questo non è sufficiente quando gli afro, gli ispanici e comunque in genere le altre comunità per il 70, 80 anche 90% si schierano coi democratici. I risultati sono due, e uno certamente negativo . I repubblicani, se vogliono tornare a vincere, devono fare i conti con questa realtà : il loro elettorato prevalente è ormai minoranza nel paese e quindi devono adeguarsi in qualche misura a questo nuovo stato di cose, se non vogliono perdere le elezioni presidenziali quantomeno ogni qual volta l'economia è in difficoltà (quelle Stato per Stato sono un po' diverse, e infatti alla Camera i repubblicani detengono la maggioranza). Il paradosso apparente americano è che, unico esempio finora nelle democrazie occidentali, il capo dell'esecutivo uscente NON ha pagato la crisi in essere. In Europa , finora, è andata SEMPRE così nelle ultime elezioni : in Spagna, in Grecia, In Gran Bretagna e in Francia i governi in carica hanno perso, sinistra o destra che fossero . In USA no. Certo, la crisi ha appannato e non poco l'immagine del Presidente, tanto che ad un certo punto i sondaggi hanno iniziato a delineare un testa a testa che alla fine non c'è stato, ancorché la vittoria non sia stato trionfale è stata però netta (tre milioni di voti in più, un centinaio di Grandi elettori di differenza, mentre la vittoria nei singoli stati è stata paritaria, e come al solito, le coste ai democratici e la pancia dell'america repubblicana) . Un prezzo alle grandi difficoltà dell'economia quindi Obama lo ha pagato ma NON fino alla sconfitta. Perché questo ? Secondo me ha ragione Calabresi : per un immigrato americano, per i "latinos", sempre meglio un presidente che promette l'aiuto dello Stato che uno che ti dice che "dipende da te il tuo benessere" e che lo Stato si limiterà a favorire le condizioni perché tu le possa cogliere. Il secondo aspetto è la SPACCATURA dell'AMERICA , con la deriva socialdemocratica del partito democratico e quindi una più netta divisione tra una società liberale, con uno Stato più leggero e non invadente, e una statalista e dirigista, dove il popolo guarda al Governo come al Messia.
Il fatto che questa divisione ideologica trovi una configurazione demografica ed etnica, bianchi da una parte e latinos e immigrati dall'altra, non è affatto una buona cosa.
Alesina torna invece sui problemi economici, e prende in considerazione il cd. FISCALL CLIFF che aspetta a fine anno gli USA. La "scogliera" (questo significa CLIFF) dove sarà inevitabile, per questioni di bilancio e di debito, tagliare sia le agevolazioni fiscali non solo dei ricchi ma anche probabilmente dei benestanti da un lato, e dall'altra ridimensionare il welfare in salsa americana. Il sistema previdenziale è al collasso, anche a causa del fatto che la gente non muore più, mentre l'Obamacare (com'è stato ribattezzato il sistema sanitario pubblico dopo la riforma presidenziale) non può permettersi di non fare distinzione tra soggetti veramente deboli e gli altri. In poche parole, i problemi dell'Europa, quello che Romney non voleva per gli USA.
Del resto, con un debito pubblico al 100% del PIL e un deficit che è tre volte quello italiano, è evidente che qualche brutto vizio gli americano l'hanno preso. Alesina teme che Obama possa farsi tentate, superato in qualche modo lo scoglio di fine anno, di continuare a fare leva sul debito per conservare quel minimo di crescita che gli USA hanno. Sarebbe una soluzione provvisoria, che non risolverebbe il problema , solo spostandolo, acuito.
Discorsi noti, che si sentono anche qui. E che vengono ignorati. Anche lì.
Buona Lettura
“La coalizione che ridisegna gli Stati Uniti” di Mario
Calabresi
La vittoria di Barack Obama di ieri notte non è sorella di
quella di quattro anni fa.
Nel 2008 la Casa Bianca fu conquistata grazie a un messaggio
potente di cambiamento e novità. A incantare la maggioranza degli americani
furono l’immagine e la retorica di un giovane senatore nero, che rompeva gli
schemi della politica tradizionale e le barriere razziali.
Oggi quell’incanto e quella speranza sono svaniti,
sostituiti però dalle speranze individuali di milioni di persone che in quel
Presidente, che nel frattempo ha compiuto i cinquanta, vedono ancora la
possibilità di una loro realizzazione.
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Per riuscirci e per vincere le elezioni bisogna conoscere il
proprio Paese, sapere esattamente chi sono, cosa pensano e cosa vorrebbero per
il loro presente e il loro futuro i cittadini. La capacità della squadra di
Obama è stata di farlo con precisione millimetrica: preso atto che la
maggioranza degli elettori maschi bianchi si stava spostando verso destra,
verso il candidato repubblicano, era tempo di creare un nuovo blocco di
interesse ripetendo l’operazione che Franklin Delano Roosevelt fece esattamente
ottant’anni fa, quando mise insieme gli agricoltori bianchi del Sud e i nuovi
lavoratori italiani e irlandesi garantendo ai democratici due decenni di
predominio.
Oggi, che come nel 1932 viviamo sprofondati nella
recessione, era possibile osare un cambio di paradigma, perché la crisi
economica ha cambiato il sentimento profondo dell’America.
Così è nata una nuova coalizione che si può permettere di
vincere anche contro il pensiero economico dominante da decenni, anche se è
portatrice di un’idea di Stato pesante e presente, un concetto considerato a
lungo una pericolosa bestemmia per chi volesse entrare alla Casa Bianca.
Una
coalizione che ha permesso di vincere nonostante il sessanta per cento degli
elettori bianchi abbia scelto Mitt Romney e che ha sancito che l’America
bianca, anglosassone, dello Stato leggero e del conservatorismo sociale non è
più in grado di dettare legge da sola: è andata in minoranza.
Le paure di Samuel Huntington, l’uomo dello «Scontro di
civiltà», ieri notte si sono avverate. Tre anni prima di morire, nel 2005, il
professore di Harvard aveva teorizzato la fine di quell’America «wasp», con il
mito dell’individualismo e del libero mercato, che per due secoli era stata
capace di integrare ogni ondata migratoria nella sua ideologia fondativa.
Ora è accaduto, anche se in termini diversi da quelli
catastrofici profetizzati da Huntington. Obama ha saldato una minoranza bianca
progressista, intellettuale, interessata soprattutto ai diritti civili (dai
matrimoni gay, all’aborto, alle tematiche di genere) con il blocco delle
minoranze dell’America multietnica. I democratici hanno conquistato il voto del
93 per cento degli afroamericani, del settanta per cento degli ispanici e del
73 degli asiatici. I latinos hanno fatto la differenza in Florida e Virginia e
hanno rotto il blocco conservatore del Sud-Ovest regalando al Presidente
Colorado e New Mexico.
Eppure gli ispanici sarebbero gli alleati ideali dei
repubblicani: sono cattolici, vivono per la famiglia, non amano l’idea dei
matrimoni gay e sono conservatori. Potrebbero sposare un conservatorismo dei
valori ma non possono permettersi un Paese in cui vinca l’idea di un welfare
minimo (le loro famiglie allargate hanno bisogno di scuola e sanità pubblica) e
non possono condividere una politica di espulsioni verso i lavoratori immigrati
che non hanno regolare permesso di soggiorno (i clandestini sono 12 milioni).
Questi gruppi sociali così diversi condividono un’idea,
passatemi il paragone, più europea della società, con una presenza dello Stato
che si sente. Gli operai bianchi dell’Ohio e del Michigan, a differenza dei
loro colleghi di tutta America, hanno scelto di votare democratico perché si
sono sentiti più garantiti dall’uomo del salvataggio pubblico dell’industria
dell’auto, piuttosto che dal repubblicano che sosteneva – in nome dell’economia
di mercato – che sarebbe stato meglio lasciar fallire Detroit.
Nello studio dettagliato degli spostamenti demografici,
geografici e sociali della popolazione, la squadra di Obama ha anche capito
che, non solo per una frangia radicale, ma per la maggioranza delle donne
americane è cruciale la libertà di scegliere di fronte ai temi che riguardano
la loro vita riproduttiva, tanto da non sopportare più di sentirsi dettare le
regole da un gruppo di maschi bianchi. E così la campagna mirata di Obama sui
diritti delle donne gli ha garantito il voto del 55 per cento delle elettrici
americane.
Questa coalizione vincente, destinata a crescere con il boom
demografico ispanico, mette in grave crisi il partito repubblicano e gli
imporrà di ripensarsi profondamente, ma consegna al Presidente in carica un
Paese profondamente diviso e polarizzato. Da questa mattina, anzi già da ieri
notte con il discorso della vittoria, Obama dovrà dimostrare di saper anche ricucire
l’America.
Le elezioni americane si sono giocate sull'economia: come
rimettere in sesto la finanza pubblica del Paese e il ruolo che deve avere lo
Stato sociale. Il debito pubblico americano viaggia verso il 100 per cento del
Prodotto interno lordo (Pil) e non si ferma. A politiche invariate, la spesa
sanitaria e in particolare il Medicare (la protezione gratuita per tutti gli
anziani, ricchi e poveri) crescerà a ritmi esponenziali; i sistemi
pensionistici dei dipendenti di molti Stati sono già sull'orlo della
bancarotta. I tassi di interesse non potranno rimanere così bassi per sempre,
tenderanno invece a salire. E con un debito così alto, anche aumenti modesti si
trasformeranno in macigni per i contribuenti. La politica monetaria non potrà
aiutare, avendo esaurito da tempo le sue cartucce. La crescita del Pil è
discreta ma non sarà sufficiente a ridurre il rapporto con il debito. Obama ha
di fronte a sé tre strade. La prima è di fare poco o nulla. Sfiorare ma evitare
di cadere nel fiscal cliff , quel «precipizio fiscale» frutto della pericolosa
combinazione che si verificherà a fine anno quando termineranno alcune
agevolazioni fiscali e contemporaneamente partiranno tagli di spesa automatici.
Per evitare la trappola dovrà però affidarsi a qualche
aggiustamento marginale; aumentando cioè di molto le aliquote sui più ricchi,
ma senza affrontare nessuno dei problemi strutturali della dinamica del debito,
consegnando così la «patata bollente» al prossimo presidente.
La seconda strada è quella di continuare ad aumentare la
spesa pubblica per cercare (probabilmente invano) di accelerare la crescita. Ma
sempre per evitare il «fiscal cliff» ciò significherebbe un aumento delle
imposte consistente e non solo per quel «famoso» uno per cento di ultra ricchi.
Gli aumenti dovranno essere generalizzati e questi ultimi
rischiano di aver un effetto recessivo e quindi controproducente. Le
conseguenze le stanno sperimentando alcuni Paesi europei, compreso il nostro:
tasse più alte, recessione, difficoltà a far quadrare i conti perché il Pil
scende e con esso il gettito fiscale.
È questo a cui si riferiva Romney quando diceva che con
Obama l'America sarebbe finita come certi Paesi europei. Gli effetti espansivi
di più spesa pubblica (ammesso che vi siano) sarebbero un fuoco di paglia ben
presto compensato dagli effetti negativi. E cioè: più incertezza degli
operatori sul futuro fiscale degli Stati Uniti, aumento delle preoccupazioni
sul debito e possibili incrementi dei tassi di interesse, associati a
instabilità dei mercati finanziari sempre più nervosi.
La cosa migliore che Obama può fare per favorire la crescita
è dare invece stabilità al quadro fiscale, e «regole» ai mercati finanziari e
non. Altre scorciatoie non vi sono. Ed ecco, appunto, la terza strada di Obama:
combinare i suoi legittimi desideri di uno Stato sociale relativamente generoso
con la stabilità dei conti. Come farlo? Non facile, ma la ricetta è nota.
Concentrare la spesa sociale sui veri deboli e non con aiuti
a pioggia; riformare la bomba a orologeria di Medicare; aggredire e non
posporre il problema dei sistemi pensionistici pubblici disastrati;
semplificare infine un sistema fiscale bizantino eliminando detrazioni e sgravi
a questo o quel settore solo perché particolarmente ben rappresentato da
qualche lobby.
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