Credo che molti colleghi di Roma conoscano personalmente il Giudice De Cataldo. consigliere a latere in Corte D'Assise nella sezione presieduta da D'Andria ( se non sbaglio faceva parte della corte che decise per l'assoluzione in appello di Busco, l'ex ragazzo di Simonetta Cesaroni, uccisa a via Poma ) . Oltre a fare il Giudice, De Cataldo ha la passione per la scrittura. Il suo romanzo più famoso (e ben fatto) è "Romanzo Criminale", riproposizione delle vicende dei personaggi principali della Banda della Magliana a Roma. Ha collaborato anche per la stesura della sceneggiatura del film e poi del serial tv. Ha scritto anche vari saggi, io ho letto l'ultimo IN GIUSTIZIA , dove ho trovato l'immagine di un magistrato equilibrato anche se un pochino turbato dalle sue chiare convinzioni politiche. Però, se tentazione di fare "giustizia"secondo queste ultime c'è, il nostro riesce a tenerla a bada. Così almeno dice, e sarei portato a credergli.
La vena infatti giustizialista propria di certa magistratura, specie in procura ma anche tra i giudicanti, non tocca De Cataldo che riporta alla memoria (esempio ultimamente piuttosto raro ) come il garantismo sia principio originariamente molto più caro alla sinistra, mentre quello del Law and Order era ben più familiare alla destra.
Condivido quanto scrive oggi su Repubblica in ordine al problema della Carceri , annoso e di cui in questi giorni si è parlato di più grazie alla sfida pericolosa lanciata da Pannella, che ormai però, per risparmiarsi i lazzi e le derisioni di tanti, dovrebbe morire e non soltanto rischiare di farlo.
De Cataldo ricorda giustamente che il problema delle carceri è sempre stato difficile, ma oggi lo è di più, perché il percorso culturale prevalente in questi ultimi lustri (lui parla di 20 anni, e a ragione, ipotizzando che parta da Mani Pulite ....) è stato opposto a quello in linea con il principio costituzionale della pena che non solo sanziona ma anche "redime", "recupera" il reo condannato.
La gente, la maggior parte, e questo trasversalmente, da sinistra a destra, vede invece il carcere come un luogo nel quale i criminali sono messi in condizione di non nuocere, per cui più ci stanno e PEGGIO ci stanno, e meglio è.
E poco importa se la Costituzione, così MERAVIGLIOSA se ne parla un comico, dice l'opposto. E nemmeno che quasi la metà di quelli che oggi stanno in carcere, in uno stato in tanti casi sub umano, in realtà non siano stati ancora giudicati colpevoli. Per molti nemmeno è iniziato il processo.
E allora restano parole nobili e vuote, a cui peraltro non è possibile rinunciare, per non smettere di sperare che un giorno si riempiano e si realizzino.
Buona Lettura
“SE LE CARCERI
SOVRAFFOLLATE TRADISCONO LA COSTITUZIONE”
Il digiuno di Marco Pannella ha il merito di tenere desta
l’attenzione sull’intollerabile situazione delle carceri italiane. Molte voci
autorevoli si sono levate, in questi ultimi giorni, dando vita a una sorta di
dialogo a distanza con le istanze poste dal leader radicale.
Nelle opinioni prevalenti sembra dominare una sorta di
rassegnato realismo: sappiamo che le carceri italiane non sono gli alberghi a
cinque stelle di cui in anni passati parlò, sciaguratamente, un ministro della
Repubblica, e abbiamo fatto molto, in termini di depenalizzazione, misure
alternative, ecc. Ma l’amnistia, per esempio, che pure servirebbe quanto meno a
tamponare l’emergenza, è impraticabile per difetto delle condizioni politiche,
la legislatura sta finendo e qualche disegno di legge qualificante appare
destinato a naufragare. Pannella parla, con l’abituale enfasi, di «flagranza
criminale » dello Stato; gli si risponde «prendiamo atto, siamo consapevoli,
facciamo il possibile». Che, peraltro, e anche di questo vi è consapevolezza,
non è abbastanza. Non è solo dialettica fra passionalità e realismo, fra
emotività e freddezza. Il dialogo a distanza investe un punto nodale, e
irrisolto, che non appartiene né alla tecnica legislativa né all’organizzazione
delle risorse, ma alla struttura stessa del sistema penale italiano, e, soprattutto,
al grado di accettazione e condivisione degli italiani. Basta scorrere i
commenti che si rincorrono sul web per farsi un’idea degli umori dominanti: non
è tanto il fatto che si ironizzi sul digiuno a colpire, quanto la netta
percezione che trent’anni e passa di politica più o meno riformatrice in
materia carceraria non abbiano prodotto nessun serio mutamento culturale.
Una
buona parte dei nostri cittadini, forse la maggioranza, resta convinta che
l’unica ricetta per chi delinque sia una cella ben solida, poi prendere la
chiave e gettarla via. E amen.
Il destino dei carcerati lascia indifferenti,
non accende passioni. Al massimo, c’è chi chiede di costruire nuove carceri e
chi, per contro, ne diffida, già rassegnato all’inevitabile sequenza di corruzioni
all’italiana. Un coro unanime e impressionante che accomuna sedicenti
progressisti e conservatori e sommerge di lazzi e becere facezie le poche voci
problematiche. Il popolo, almeno quello del web, invoca repressione e galera.
La politica rischierebbe persino di farci una bella figura, se non avesse la
sua buona parte di responsabilità: dopo vent’anni di urla scomposte, di allarme
sicurezza, di leggi esasperatamente punitive, l’effetto era prevedibile.
Una
cultura della vendetta, livorosa e ghignante, sembra imporsi. Non ne siamo
esenti — parlo per esperienza diretta — neanche noi magistrati.
Ma se le cose
stanno così, è una sconfitta non solo per Pannella e per coloro — e non mancano
— che continuano a credere nell’utopia di un carcere diverso. È una sconfitta
per la stessa Costituzione. Oggi la nostra Carta fondamentale è tornata di
moda. Il rischio è che diventi un oggetto di culto da venerare, ma tenendosi a
debita distanza. Che se ne citino, con enfasi, i passi che più ci convengono,
stendendo un velo d’oblio su tutti gli altri. Chissà quanti fra coloro che
fanno del sarcasmo su Pannella e sui “poveri delinquenti” l’altra sera
provavano fremiti di orgogliosa commozione davanti allo show costituzionale di
Benigni. Bisognerebbe, con la santa pazienza, ricordar loro che è proprio la
Costituzione a fissare i parametri della “giusta” pena, imponendo allo Stato di
attivarsi per promuovere la rieducazione dei condannati. E, piaccia o non, un
carcere sovraffollato, un carcere che non offre lavoro, cultura, istruzione, e,
dunque, speranza, un carcere che alimenta suicidi è un carcere fuori dalla
Costituzione.
RICCARDO
RispondiEliminaNon molliamo sul carcere! Qui il sempre puntualissimo Stefano Turchetti, grande intellettuale, grande avvocato e caro amico, tutto da leggere
GIUDITTA
RispondiEliminaBellissimo... sinceramente, Stefano, il tuo modo di veicolare le notizie lo preferisco a tanta altra becera informazione... mi fido di te...