Ad una settimana dal voto mi è capitato sotto gli occhi un articolo scritto sulla Stampa da Luca Ricolfi proprio l'ultimo giorno del 2012. Nell'augurarsi che un annus horribilis come quello che stava finendo non capitasse più ( non è detto invece che non peggiori...), il Professore di Sociologia dell'Università torinese, nonché.noto e apprezzato opinionista di area Liberal del quotidiano torinese, fa un'analisi prospettica certamente poco seducente, ma tristemente realistica.
Devo dire, con un certo orgoglio, che molte delle cose che ben trovo scritte nell'articolo, il Camerlengo le ha postate in varie occasioni e quindi :
1) La riedizione del compromesso storico prossimo venturo, con l'alleanza scontata (ancorché si vedrà con quale grado di compatibilità ) tra Bersani , Monti e Vendola
2) La perdita dell'occasione di un vero partito liberal progressista, guidato da Renzi, e l'affermazione di un PD continuatore fedele della storia dei suoi partiti predecessori : PCI, PDS, DS....
3) Parimenti, sfumata la formazione di un vero asse liberaldemocratico, fondato sui nuovi movimenti dell'area civile : Italia Futura, Fermare il Declino (poi diventato FARE per...) alla cui guida poteva anche mettersi Monti, che invece ha preferito allearsi con vecchi personaggi della prima repubblica, Casini e Fini, la cui idea di riforme è discutibile se non inesistente
Come osserva, in un altro commento, Giacalone, perché l'alleanza tra il "Centrino" di Monti, che si avvia miseramente ad essere la QUARTA forza del nuovo Parlamento, e la sinistra di Bersani e Vendola, possa effettivamente concludersi, questi ultimi devono perdere il Senato. Altrimenti, come glielo spiegano alla parte più ortodossa della loro coalizione la cessione di poltrone governative importanti ad un partito che vale meno di Grillo, poco più di Ingroia, e che imbarca pure Fini ??
Equilibri azzardati e non si sa quanto durevoli, che hanno come unico comun denominatore il seppellimento del bipolarismo, obiettivamente riuscito male, come del resto era inevitabile avendo mantenuto il vecchio assetto fondato sul parlamentarismo e con tanti nostalgici del proporzionale e delle trattative POST voto.
Insomma, la speranza che da una grande crisi potesse sfociare una opportunità di cambiamento importante, è sfumata.
Occasione persa, e poco consola il pronostico di molti che il papocchio che si preannuncia, con una opposizione forte e agguerrita come quella determinata anche dal successo grillino, non potrà durare molto.
La liberal democrazia continua a non avere una sua casa robusta, ancorché sia generoso e da premiare il tentativo di Giannino e dei suoi.
Buona Lettura
VERSO LA PRIMA REPUBBLICA
Come sarà il 2013? Ce lo chiediamo in molti,
perché un anno come quello che ci lasciamo alle spalle non vorremmo si
ripetesse mai più.
Un dato riassume bene quel
che è cambiato: le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, e
quindi sono costrette a fare debiti o ad attingere ai risparmi, sono
raddoppiate. Erano circa 3 milioni e mezzo un anno fa, oggi sono 7 milioni:
quasi una famiglia su tre.
In questa situazione, la
politica si prepara allegramente al voto del 24 febbraio. E anche noi elettori
ci prepariamo perché, comunque la pensiamo, dovremo fare una scelta, foss’anche
quella di non andare a votare. Per quanto mi riguarda, il sentimento che meglio
descrive il mio stato d’animo è un misto di sconforto e solitudine. Un
sentimento che non sento come mio personale, ma come largamente diffuso fra la
gente, ovvero in tante delle persone con cui mi capita di parlare.
Lo sconforto è facile da
raccontare. Quello cui siamo costretti ad assistere è un film già visto e
stravisto. Andremo a votare con il «porcellum», senza poter scegliere i
candidati. Eleggeremo un migliaio di parlamentari, come sempre. La sinistra
ripropone il governo dell’Unione, già miseramente fallito con Prodi nel
2006-2008. La destra ripropone Berlusconi, il demagogo che ha occupato la scena
degli ultimi 20 anni. Il centro, come giustamente paventa Eugenio Scalfari nel
suo editoriale di ieri, ripropone una piccola Dc, nobilitata e abbellita dal
marchio Monti. Spiace doverlo ammettere (perché anch’io per un attimo mi ero
illuso), ma la lista Monti – partita con le più alte intenzioni – questo è
diventata alla fine: una formazione che di liberaldemocratico ha quasi nulla e
di vecchia politica ha molto, se non quasi tutto. Per me, come per altri, è
stato un piccolo shock, una doccia fredda. Nel giro di pochi mesi, e poi sempre
più velocemente nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, nelle ultime ore,
fino alla decisiva «riunione in convento» di venerdì scorso, sono cadute tutte
le ipotesi più coraggiose e innovative di cui si è parlato negli ultimi tempi.
Ancora due mesi fa, sembrava possibile una lista liberaldemocratica, che
saldasse «Italia Futura» e «Fermare il declino», i movimenti di Montezemolo e
Giannino. Poi, caduta quell’ipotesi, pareva rimasta in piedi quella di una
lista Monti «unica» (senza apparentamenti), molto aperta alle forze esterne,
molto selettiva verso la vecchia politica, molto severa con i politici
condannati. Era questa la missione affidata al ministro Passera, era questo –
credo – ciò che aveva attirato nell’area montiana politici di grande valore
come Pietro Ichino. Anche questa ipotesi è caduta: alla Camera chi sceglierà
Monti dovrà tenersi Casini e Fini, con tutto il seguito di vecchie glorie della
seconda Repubblica. E chi avesse qualche simpatia per «Fermare il declino», il
movimento liberaldemocratico di Oscar Giannino, non ne troverebbe traccia nella
lista Monti. Strano: Monti ha voluto presentare la sua agenda come aperta, ma
non ha ritenuto di rispondere alla lettera aperta che Giannino e i fondatori di
«Fermare il declino» gli hanno indirizzato dieci giorni fa. Comportamento
legittimo, ma in totale dissonanza con le ripetute dichiarazioni di attenzione
alla società civile e ai suoi movimenti.
Piccole cose, piccole beghe,
dettagli irrilevanti, diranno i paladini di Monti e della sua agenda. E in
effetti la si può pensare così. Se si è preparati ad assistere, 40 anni dopo,
all’edizione aggiornata del compromesso storico fra comunisti e democristiani,
sognato da Enrico Berlinguer nel 1973, la via è tracciata e ci si può
accomodare serenamente in prima fila, in attesa che inizi lo spettacolo. Certo,
non sappiamo ancora chi, fra Bersani e Monti, farà il presidente del Consiglio,
ma è estremamente probabile che – dopo il 24 febbraio – a governarci sia
comunque la santissima trinità Monti-BersaniVendola. Perché, contrariamente a
quanto qualcuno vorrebbe farci credere, le distanze fra Bersani e Monti sono
minime. Lo dicono innanzi tutto coloro che vedono con simpatia le rispettive
agende: «l’agenda Monti ha il merito di mostrare che l’imposizione sui
patrimoni non è soltanto una mania delle sinistre», molto lucidamente osservava
ieri Stefano Lepri su questo giornale. E ancora più esplicitamente, nel già
citato editoriale di ieri, scriveva Eugenio Scalfari: «C’è anche un’agenda
Bersani. (…) Tra l’agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze,
anzi non ne vedo quasi nessuna». Il giudizio mi sembra sostanzialmente
corretto, anche se qualche differenza non del tutto marginale io invece la
vedrei. Appena concluso il patto con Monti, Casini ha subito enunciato il punto
fondamentale del suo programma: il quoziente familiare. Per chi non conoscesse
il senso di questa oscura espressione, traduco così: se ci sono risorse per
abbassare le tasse, le usiamo per alleggerire la pressione fiscale sulle
famiglie in cui la donna non lavora e accudisce i figli. L’esatto contrario di
quel che i politici e gli studiosi di matrice liberale raccomandano: aiutare le
donne inoccupate a trovare un lavoro, detassando il lavoro femminile. Per non
parlare di un’altra differenza, forse ancora più importante: in materia di
federalismo, nonostante tutto, il partito di Bersani è più sensibile (meglio:
meno insensibile) alle istanze del Nord di quantolo siano i partiti del Terzo
polo, profondamente radicati nel Mezzogiorno e perennemente tentati da logiche
assistenziali.
Il fatto è che,
nell’arcipelago Monti, il peso del mondo laico e liberale è ormai al minimo,
mentre quello del moderatismo cattolico è massimo, specie dopo che il ministro
Passera è stato costretto al passo indietro, e la rappresentanza della
cosiddetta società civile è stata interamente appaltata a Verso la terza
Repubblica, il movimento scaturito dalla confluenza fra Italia Futura e
innumerevoli sigle dell’associazionismo cattolico. Ecco perché, all’inizio,
parlavo di sconforto ma anche di solitudine. Oggi, chi avrebbe voluto cambiare
decisamente rotta, lasciandosi alle spalle la vecchia classe politica,
imboccando risolutamente la strada delle riforme liberali – meno spesa, meno
tasse, meno Stato – è disperatamente solo. E, quel che più dispiace, è solo non
perché siamo in pochi, ma perché siamo in tanti ma senza rappresentanza. Nella
lista Monti le istanze genuinamente liberali contano poco. I radicali,
nonostante gli scioperi della fame (o a causa di essi?), sono quasi scomparsi
dalla scena politica. Giannino e il suo movimento sono sostanzialmente ignorati
dai media. Renzi è stato sconfitto e i suoi uomini sono tenuti ai margini del
Pd. Gli elettori non contano nulla, perché i giochi si faranno dopo, in
Parlamento, come ai tempi di Craxi, Forlani e Andreotti. In breve, se non
vogliamo né Grillo né il ritorno del grande demagogo, la scelta è fra Pci e Dc.
Anzi non c’è vera scelta, perché Bersani e Monti governeranno insieme. Che
dire? Buon anno, e ben tornati nella prima Repubblica.
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