Andato ieri a vedere il film Educazione Siberiana. Sono uno a cui piace Gabriele Salvatores. A parte il bellissimo Mediterraneo, che vinse l'Oscar come miglior film straniero, ho apprezzato Puerto Escondido , Sud, Marrakesh, e naturalmente Io non ho paura, che si meritò un'altra candidatura all'Oscar.
Non ero sicurissimo devo dire, però una discreta critica e la presenza di un attore bravissimo come John Malcovich mi hanno alla fine deciso.
Il film è godibile ma certo non imperdibile.
La
storia è incentrata essenzialmente sulla inculcazione di un codice etico tutto
particolare che un bambino, orfano di padre. subisce fin da piccolo e
impartitagli dal nonno. Un codice fatto di onore, lealtà e accettazione della
criminalità come modo di sopravvivere e difendersi dalla prepotenza di una
legalità ufficiale. In realtà i "siberiani" si chiamano così perché
sono dei deportati.
Intere famiglie che, bollate come irrecuperabili,
furono veramente deportate in Siberia.
Un po' come se lo facessimo qui in Italia
con quelli di Scampia , di Corleone, o, parlando delle città maggiori, i quartieri spagnoli a Napoli, Bari vecchia,
Il film scorre ma non emoziona nonostante i temi del grande legame tra nonno
e nipote, dell'amore tra il protagonista e una tenera ragazza senza senno,
l'amicizia grande che in fondo rimane fino alla fine con un coetaneo nonostante
la vita e la condotta cinica, fino al crimine, di quest'ultimo, faccia molto per dividerli...
Tutto questo, a mio personalissimo gusto, viene tratteggiato con mestiere
ma senza intensità....
Forse perché Salvatores è più regista della
commedia umana che del dramma. Bravo anche a tratteggiare la parte interiore degli
uomini ma facendolo con "leggerezza", come nel bellissimo
Mediterraneo.
Educazione Siberiana è libro forse troppo crudo per lui.
Ma lascio il passo ai critici di professione
Inviato il 28/02/2013 da Francesco Manca
Fra i tanti meriti da attribuire al regista
Gabriele Salvatores, uno su tutti è senz'altro quello di non aver mai perso, in
trent'anni di carriera e dopo un Oscar vinto nel 1992 per il celebre
Mediterraneo (1991), quella tanto insolita - per il nostro cinema - quanto
benefica frenesia sperimentativa divenuta presto una costante della sua
produzione artistica. Dal tema della fuga che fa da cuore pulsante alla
rispettiva trilogia (Marrakech Express (1989), Turné (1990) e il succitato
Mediterraneo) alle atmosfere surrealiste di Nirvana (1997), dalle euforiche
sperimentazioni visive di Denti (2000) e Amnésia (2001) a quelle più contenute
di Io non ho paura (2003) e Come Dio comanda (2008), fino al metacinema ironico
di Happy Family (2010).
Difficile
stabilire quali siano i reali punti d'accordo fra le quindici pellicole dirette
in carriera dal cineasta di origine partenopea. E' possibile, più che altro,
rintracciare in tutte le opere una sorta di ricerca, umana e formale,
attraverso i personaggi e le vicende che li vedono protagonisti, pur, appunto,
in contesti, luoghi e realtà differenti.
Dunque,
a tre anni di distanza dalla gradevole commedia interpretata, tra gli altri, da
Fabio De Luigi e Diego Abatantuono - da prendere più che altro come una
scanzonata reunion tra vecchi amici/colleghi - Educazione siberiana, dal
romanzo omonimo di Nicolai Lilin, segna quello che è il vero ritorno dietro la
macchina da presa di Gabriele Salvatores.
IL
GRANDE FREDDOIn linea con quanto fatto recentemente da Tornatore con
l'apprezzatissimo La migliore offerta, anche Salvatores sceglie, per Educazione
siberiana, un cast di nomi internazionali, ove spiccano, senza troppe
difficoltà, quelli di Peter Stormare e soprattutto John Malkovich, nessuno dei
quali, però, impiegato in un ruolo da protagonista. Carica ricoperta invece dai
giovani Arnas Fedaravicius e Vilius Tumalavicius, rispettivamente nei panni di
Kolyma e Gagarin, amici per la pelle nella fredda Transnistria - corrispondente
all'attuale Moldavia - iniziati alla criminalità da nonno Kuzjia con le prime
rapine e la condivisione della refurtiva. Poco prima di finire in carcere,
Kolyma si innamora perdutamente di Xenja (Eleanor Tomlinson), ragazza
mentalmente disturbata, figlia del medico legale. Durante la detenzione, il
giovane traduce il proprio sentimento attraverso un simbolico tatuaggio,
elemento cruciale per l'educazione che nonno Kuzjia ha voluto impartire al
nipote. Una volta scarcerato, Kolyma apprende dallo stesso nonno che la ragazza
di cui è innamorato ha subito una violenza. Fatto che porterà il giovane ad
arruolarsi nell'esercito, infrangendo così il proprio codice d'onore, per trovare
e uccidere l'uomo che ha abusato della sua amata. Parlavamo di ricerca, nelle
righe soprastanti. Aspetto che Salvatores, in questo più che in qualunque altro
tassello della sua filmografia, pone in cima alla lista dei propri obiettivi da
perseguire, imprimendo nella sceneggiatura - di cui è autore insieme ai fedeli
Stefano Rulli e Sandro Petraglia - come nella regia il proprio, inconfondibile
marchio di fabbrica, testimoniato da personaggi forti e corposi e da una
struttura narrativa solida seppur, in alcuni tratti, superficiale. Elemento,
questo, che non impedisce comunque alla pellicola di rendersi appetibile agli
occhi di qualsiasi spettatore pur trattando, come detto, argomenti di forte
impatto emotivo e talvolta esaltati da un uso forse un po' eccessivo della
violenza.
Non
vi è, alla fine, grande fedeltà con la matrice letteraria di Lilin da cui
l'opera trae appunto ispirazione, come risultano talora fastidiosi i frequenti
viraggi verso la spettacolarizzazione che regista e sceneggiatori adottano in
vari frangenti della storia, sottraendo in questo modo valore e credibilità
allo stile asciutto, essenziale e glaciale - visto il contesto - che avrebbe
potuto rimanere inalterato.
Il
risultato complessivo è comunque quello di un'opera pregevole, tecnicamente
distinta (da ammirare la splendida fotografia di Italo Petriccione, altro
fedelissimo della factory di Salvatores), forte, cruda e non di rado
straziante, che paga dazio solo per la troppa enfasi mostrata in alcune parti
del minutaggio.
Gabriele
Salvatores, alla sua fatica n. 15, sceglie un cast internazionale (John
Malkovich e Peter Stormare tra i componenti) affidando però i ruoli dei
protagonisti assoluti a due giovani attori russi.
Del
romanzo omonimo di Nicolai Lilin utilizzato come fonte d'ispirazione rimane
poco in questa trasposizione filmica, soprattutto per quanto riguarda lo stile
narrativo asciutto ed essenziale che costituiva uno dei massimi pregi dello
scritto.
Grazie
alla straordinaria abilità del regista nel disegnare personaggi forti e situazioni
di grande impatto, la pellicola risulta alla fine valida ed avvincente per
buona parte della sua struttura, con un reparto tecnico eccellente ad
arricchire l'operazione.
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