mercoledì 27 marzo 2013

MA SE ANCHE LA NAVE DI BERSANI PARTISSE, DOVE POTREBBE MAI ARRIVARE ?


Delle tante analisi che si susseguono sull'impasse italiano, e sugli scenari prossimi venturi, ho apprezzato quella odierna di Marzio Breda, valente cronista  politico del Corriere della Sera .
Bersani, contro ogni evidenza ufficiale, continua a dirsi fiducioso, che la sua tela, con concessioni un po' a tutti, alla fine potrebbe anche andare bene...e quindi qualche voto spurio specie dai grillini "responsabili" o "traditori", a seconda di chi guarda, , l'appoggio dei montiani e una non sfiducia, tecnica o tattica si vedrà, da parte del centrodestra ( parte di esso), ed ecco che "la nave va".
Dove arriverà, come cantava Sergio Endrigo 100 anni fa, , questo non si sa....
Intanto, il ritorno al Colle, lo ha farro slittare a venerdì, da giovedì che doveva essere...
Breda, come molti altri, la vede diversamente
Buona Lettura


LE CONSULTAZIONI

Bersani in salita, senza numeri o intese esplicite
Napolitano darà l'incarico a un altro

L'ipotesi di inviare subito una personalità alle Camere per la fiducia

Pierluigi Bersani (Ap)Pierluigi Bersani (Ap)
ROMA - Da laico pragmatico che cerca sempre di proiettare le proprie scelte su schemi empiricamente dimostrabili, è ovvio che Giorgio Napolitano non creda nei prodigi. Sarà dunque difficilissimo, per non dire impossibile, per il segretario del Pd, dopo aver ammesso che per fare il suo governo «serve un miracolo», ottenere che il preincarico ricevuto si trasformi in un incarico pieno se non avrà verificato - e se non ne darà prova - «l'esistenza di un sostegno parlamentare certo».

Ora, poiché fino a ieri sera Bersani non aveva registrato (tranne qualche confuso segnale di fumo tutto da decifrare) concrete chance di guadagnarsi un voto di fiducia per dare il via a un esecutivo, sembra irreale per lui la speranza di incassare dal Quirinale il via libera per una sfida al buio. Anche se la fondasse su una lista di ministri di alto profilo e su un programma forte, rivendicando il diritto di un tentativo in aula, per inchiodare i singoli senatori alle loro responsabilità. Responsabilità che il candidato premier, come ha spiegato prendendo tempo fin quasi a Pasqua per chiudere la partita, potrebbero esser misurate «per gradazioni» diverse, distinguendo tra la scelta di «appoggiare, sostenere, consentire o magari opporsi condividendo però l'esigenza delle riforme», da parte delle forze politiche.

Così, ecco che il risultato elettorale ci riporta fatalmente alle alchimie della Prima Repubblica e alle formule escogitate allora per superare momenti critici assimilabili a quello di adesso. Ci fa ad esempio pensare alla breve ma utile stagione del governo «di tregua» di Giuseppe Pella, insediato dal presidente Einaudi nell'agosto 1953, dopo che le urne avevano sconvolto i precedenti equilibri. O, soprattutto, all'esperienza del governo «della non-sfiducia», guidato da Andreotti nel 1976 e che si resse sull'astensione del Pci negoziata tra l'uomo guida della Dc, Aldo Moro, e il comunista, Enrico Berlinguer.

Questo è il punto politico: posto che l'idea di Bersani si avvicini a tale modello e che sia concepita per contrattare a tutto campo il ricorso allo strumento delle uscite mirate dall'aula per abbassare il quorum e conquistare di volta in volta un via libera, c'è da dire che quella tecnica parlamentare si fondava su un accordo politico esplicito. Documentato dalla celebre foto della stretta di mano tra i leader e formalizzato da un documento ufficiale di Botteghe Oscure.

La domanda quindi è: potrà il Bersani che si affanna per mettere in cantiere un governo di minoranza vantare come sufficiente un'intesa del genere davanti a Napolitano? Se non sarà in grado di farlo e confidasse solo in qualche promessa sottobanco grazie a uno scouting sul Movimento 5 Stelle, oltre che sull'eterogeneo fronte (Pdl escluso) da lui consultato, l'investitura salterebbe. E anche evocare lo scenario che una settimana fa ha portato alla fortunosa elezione di Pietro Grasso e Laura Boldrini sarebbe inutile. In definitiva: dovrebbe rassegnarsi al fallimento e rinunciare.

In questo caso a rassegnarsi e a rinunciare non sarebbe però il capo dello Stato. Il quale cercherà comunque di dare vita al governo istituzionale (o del presidente o di scopo, a seconda dell'imprinting che avrà) fondato sulla grande coalizione di cui ha fatto cenno come uno sbocco ricorrente in Europa, per quanto abbia riconosciuto che da noi, nella situazione attuale, sarebbe invece arduo tenere a battesimo.

Potrebbe convocare al Quirinale nel giro di poche ore una personalità che probabilmente ha già individuato - si può immaginare un uomo politico con qualche esperienza istituzionale e di elevato standing in Europa, meglio se non digiuno di questioni economiche - e inviarlo alle Camere a farsi votare la fiducia
. Mettendo lui, stavolta, la politica (e il Pd) di fronte alle sue responsabilità. Una decisione da prendere con urgenza sia perché le condizioni del Paese lo impongono sia perché dal 15 aprile le Assemblee dovrebbero convocarsi per eleggere il suo successore. E, se volesse sveltire i tempi, potrebbe perfino evitare un nuovo giro di consultazioni: basterebbe che si rifacesse a quanto disse Luigi Einaudi a Vittorio Gorresio, quando incaricò Pella: «La Costituzione non parla di consultazioni e si affida al criterio del capo dello Stato, e il mio criterio mi dice che in questo momento quello che è necessario è un governo».

Chi potrebbe criticarlo, dopo una giornata infernale come ieri, che ha gettato tutti nello sgomento, e soprattutto Napolitano? Con le dimissioni del ministro Terzi, per effetto dell'improvvida gestione dell'affaire dei marò. Con la polemica Grasso-Travaglio che ora vede in scena pure Caselli. Con il sottile Franco Battiato che a Bruxelles si sganghera a definire un «troiaio» il Parlamento. Con Le Monde che dà ormai per morto Mario Monti. Con rancori e tensioni che trapelano in casa del partito democratico. Insomma: prima si chiude, meglio è.

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