Si parla molto di decrescita felice, sostitutiva della società dei consumi. Personalmente la critica a quest'ultima ha molte ragioni, e tutte datate. Ne parlava male, e con cognizione di causa, Erich Fromm, nel suo Avere o Essere, e siamo addirittura negli anni ante guerra....Però la società capitalistica, con tutti i suoi difetti, è anche quella che ha dato all'occidente un periodo di prosperità mai conosciuto in questa dimensione nella storia dell'umanità. E i risultati si vedono in campi sensibili come l'istruzione e la sanità. Anche da noi, per quanto si critichi, e a ragione, le carenze e i disservizi in questi due settori nevralgici, chi non vede i progressi realizzati ? Anzi, una conseguenza di essi, la longevità, è diventato un problema di grandi proporzioni... Il Benessere derivato da una società fortemente industrializzata, rispetto a quella agricola, è rinunciabile ? Forse sarà inevitabile, ma a quanto pare i nostri problemi nascono per lo più dal fatto che oggi, quel benessere, è perseguito, e in modo economicamente aggressivo, da altri paesi, che non esitano a consumare quantità enormi di energia e a chiedere surplus di ore produttive ai loro lavoratori per raggiungerlo (parliamo di Cina e India, soprattutto, ma non solo).
Tornare all'Italia descritta da Guareschi in Don Camillo e Peppone a me non dispiacerebbe. La lettura di quelle storie ha accompagnato la mia adolescenza e mi piaceva la bassa padana. con la gente in bicicletta, poche auto, nessun lusso e apparentemente molta più umanità. Era veramente così ? Un po' sì, credo.
Ho seri dubbi che la gente, la maggioranza, baratterebbe le cose a cui si è abituata per quella dimensione, a meno che non costretta.
Sul tema, scrive Giuseppe Turani.
Buona Lettura
La decrescita infelice
08/03/2013 | Primo Piano | GIUSEPPE TURANI
Ci sono due parole che circolano nell’ambiente di Grillo e che hanno la potenza esplosiva della dinamite: decrescita felice. In realtà, queste due parole sono alla base un po’ di tutto il pensiero di Grillo (e di tanti altri ambienti intellettuali). I maestri della decrescita felice sono tanti e si perdono nel tempo, anche se oggi va di moda citare il francese Serge Latouche. Uno studioso abbastanza singolare che ha già fatto la sua decrescita personale: infatti vive molto sobriamente sui Pirenei in una casa da lui stesso riadattata.
La decrescita felice, in buona sostanza, consiste nel ridurre le nostre necessità e nel vivere di quello che è essenziale. L’obiettivo, quindi, non è più l’aumento continuo del Prodotto interno lordo e del benessere (come si usa ancora oggi), ma uscire progressivamente dalla società dei consumi. Quindi basta con la civiltà dell’automobile, basta (forse) con l’acqua calda e comunque no alle case troppo riscaldate, molte biciclette e pochissime automobili (che consumano e inquinano). Un ritorno, se volete un’immagine immediata, agli anni Cinquanta.
E’ curioso, poi, che a sostenere queste cose siano i seguaci di Grillo, tutti fanatici utilizzatori di smart-phone e Ipad e della Rete. Forse non sanno che la Rete è uno dei più tremendi divoratori di energia. E’ vero che singolarmente questi aggeggi consumano poco, ma nel mondo ormai sono miliardi e sono sempre in funzione. E dietro i piccoli smart-phone c’è un grande apparato tecnologico che copre tutto il pianeta. Per raffreddare server, router e data center servono migliaia di tonnellate di acqua.
Ma il punto non è questo. Il punto che in un paese, come l’Italia, con già tre milioni di disoccupati (in aumento, purtroppo), parlare di decrescita felice è come dire che vogliamo arrivare a cinque milioni di senza lavoro. Una bomba sociale tremenda. A meno di non prevedere un rimedio: portare la settimana lavorativa da 36 a 20 ore. Lavorando meno, si lavorerà tutti. Ovviamente, a parità di salario.
Rimane da capire, a questo punto, quale competitività avranno mai i nostri prodotti sui mercati internazionali. Nessuna. Così la decrescita felice si avvia a essere un’economia chiusa, sempre più povera e sempre più scomoda. Una specie di prigione francescana. Con i pomodori raccolti nell’orto (per chi ne ha uno) e il pane fatto nel forno a legna di casa.
Ma è possibile?
(Dal "Quotidiano Nazionale" del 7 marzo 2013)
(Dal "Quotidiano Nazionale" del 7 marzo 2013)
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