Chi legge il Camerlengo sa che fui trentennale lettore di Repubblica, mostrando una fedeltà che non ho in altri campi e che è stata mal riposta. Però, quando si legge per lungo tempo un quotidiano, ci si affeziona ai suoi giornalisti e opinionisti, almeno una parte, e anche quando il giornale è profondamente mutato e molte delle vecchie firme sono state sostituite da altre che non apprezzi minimamente, si fa sempre una certa fatica ad abbandonare i "vecchi amici" ancora rimasti. Tra questi, nel giornale di L.go Focherini, Ilvo Diamanti.
Da rammentare anche che qualche anno fa non c'erano i quotidiani in rete gratuiti, e quindi non comprare il giornale significava non avere più accesso al pensiero di alcuni opinionisti. Ora è diverso (anche se non so per quanto rimarrà questa semigratuità...) e quindi senza l'onere di comprare Repubblica e La Stampa, posso la mattina "sfogliare " on line le testate cercando i pezzi dei giornalisti e commentatori che stimo (così facendo mi imbatto anche in altri, che magari considero meno, e magari li leggo, ma lo reputo un "incidente" positivo, alla fine. Sempre bene tenere larga la visuale...).
Questa lunga premessa per ribadire il mio apprezzamento per Diamanti e la mia delusione nel leggere l'articolo da lui pubblicato ieri che ho trovato sorprendentemente banale. Nel passare in rassegna l'affaire kazako, accennando già che c'era alla sgradevole vicenda Calderoli, finendo anche per rivangare la condanna della spia americana colpevole del sequestro di Abu Omar ( che gli USA non estraderanno mai) , il sociologo e statistico nota con un po' di amarezza che tutto alla fine viene sacrificato al pragmatismo situazionale, e, nella fattispecie, alla conservazione del governo, a torto o ragione considerato un "bene in sé". Evidentemente lui non la pensa così (nemmeno io se per questo...) , però quello che non condivido assolutamente è il rappresentare l'Italia, e Diamanti lo fa, come un Paese declinante moralmente (oltreché econimicamente) solo da 20 anni. Come se prima della seconda repubblica il nostro paese possedesse un tasso di civismo decisamente superiore all'attuale. AL massimo, si potrebbe parlare di meno peggio ! Ma non è che l'Italia che ho attraversato io, nato negli anni 60 e giovane in quelli 70 e 80, fosse questo ricettacolo di virtù poi andate perse.
Mentre rimuginavo su questo pensiero, m'imbatto in un bell'articolo di Giovanni Federico, uno degli autori della rivista web noiseFromAmerika, che, commentando un libro appena uscito di Giuliano Amato e Andrea Graziosi (GRANDI ILLUSIONI ed. Il Mulino ) ripercorre gli errori fatti in passati più remoti dell'ultimo ventennio, e che sono alla BASE della condizione italica odierna : l'ILLUSIONE che potevamo essere tutti "ricchi".
Di qui una serie di pretese, di individualismi corporativi, e di politiche clientelari assolutamente trasversali, dove di civico e di senso della comunità c'era ben poco caro Diamanti...
Non so se arriverò ad acquistare il libro, Amato non gode di grande appeal, però l'articolo è assolutamente interessante e ve lo propongo
Un popolo di illusi?
12 luglio 2013 •
giovanni federico
Giuliano Amato non gode di una grande
reputazione in Italia di questi tempi. Gli ex-comunisti non gli hanno
mai perdonato di essere stato capo di gabinetto di Craxi. Gli
ex-socialisti non gli perdonano di essersi schierato a sinistra. Gli
italiani lo considerano l’epitome della casta – professore
universitario, politico, detentore o ex-detentore di innumerevoli
cariche e candidato permanente a tutte le altre. Eppure ha scritto,
insieme ad uno dei più brillanti storici italiani, un libro che merita
di essere letto e meditato con molta attenzione.
Il
libro è un mix, non sempre riuscito, fra ricostruzione “scientifica”
della storia italiana dal dopoguerra ad oggi e pamphlet a tesi. Per
essere un pamphlet, di quelli che vanno di moda ora (130 pagine scritte
larghe) presenta troppi fatti ed informazioni – compresa un’Appendice
statistica. Come ricostruzione “scientifica” è spesso parziale e molte
affermazioni sono relativamente poco documentate. In alcuni casi, come
l'entità dei trasferimenti fra regioni e gruppi sociali mediati dal
bilancio statale, mancano dati e ricostruirli è molto difficile (anche
se sarebbe un contributo veramente importante alla conoscenza storica).
In altri casi, si tratta di informazioni su fatti e persone note agli
anziani politicizzati come me (io c’ero, almeno come osservatore).
Probabilmente, un giovane o chiunque non abbia seguito molto
l’attualità politica avrebbe bisogno di qualche ricerca aggiuntiva. Non
è quindi un libro facile da leggere sotto l’ombrellone. Bisogna
perlomeno essere su una veranda con accesso alla rete. Il libro
però merita un minimo di sforzo perché la tesi è molto interessante
e largamente condivisibile, almeno da chi frequenta questo blog.
In sostanza, Amato e Graziosi sostengono che, a partire dai primi
anni Sessanta, gli italiani si sono illusi di essere diventati ricchi e
quindi di potersi permettere un tenore di vita da grande paese
europeo. Invece si stavano mangiando il capitale faticosamente
accumulato nella straordinaria stagione di sviluppo nota come miracolo
economico. In questo modo hanno ridotto le potenzialità di crescita
dell’economia italiana fino a portare alla stagnazione, manifestatasi
ben prima dello scoppio della crisi attuale. Si è trattato di una
illusione, come si dice ora, rigorosamente bipartisan: la DC ed il
PCI hanno gareggiato a offrire più diritti, più sussidi, più aiuti (a
spacciare più illusioni) almeno fino agli anni Ottanta. Dall’inizio
degli anni Novanta alcuni coraggiosi (in primis Amato con la famosa
finanziaria del 1992-1993) hanno tentato di invertire la tendenza, ma
sono solo riusciti a convincere gli italiani che non si poteva avere di
più. La maggioranza fatica ancora ad ammettere che anche i diritti già
acquisiti sono economicamente insostenibili. O meglio, l’Italia è
formata da decine di minoranze, ciascuna delle quali è assolutamente
convinta dell’opportunità di eliminare gli ingiusti privilegi altrui, ma
risolutamente contraria a toccare i propri diritti inalienabili.
Non è possibile in questa sede riassumere il libro, per
ovvie ragioni. Mi limiterò a citare alcuni dei punti che mi sono
sembrati più interessanti o anche criticabili
i) la necessità politica di una redistribuzione delle
risorse mediata dallo stato è derivata in ultima analisi dalla sconfitta
nella seconda guerra mondiale, che ha distrutto la fragile legittimità
della classe politica risorgimentale e delle sue aspirazioni di grande
potenza. Quindi si è manifestata già alla fine degli anni Cinquanta,
quando il paese è uscito dal clima di emergenza della ricostruzione.
ii) il combinato effetto della protesta studentesca (il
Sessantotto) e delle manifestazioni operaie (l'autunno caldo del
Sessantanove) hanno accellerato un processo politico già in corso.
Personalmente, trovo che gli autori tendano a sottovalutare l'impatto
degli avvenimenti della fine anni Sessanta e delle riforme dei primi
anni Settanta. La crescita della spesa pubblica e del welfare a scopi
redistributivi è stato un fenomeno comune a tutti i paesi avanzati. Solo
in Italia, però, si è accompagnata ad una profonda (e disastrosa)
riorganizzazione dello stato in senso regionale che ha moltiplicato i
centri di spesa. E solo in Italia il Sessantotto/Sessantanova ha creato
una mistica della “lotta” con relativa sospensione della legalità che,
seppure in forme attenuate, ci portiamo dietro ancora oggi, soprattutto
nei servizi pubblici.
iii) trovo l’interpretazione della storia degli ultimi
vent'anni alquanto manichea, anche se temperata da uno scetticismo di
fondo sul popolo italiano. Da un lato ci sono i buoni – la sinistra
riformista che ha tentato di salvare l’Italia negli anni Novanta, con
qualche (parziale) buon risultato. Dall’altro ci sono tutti gli altri,
che, una volta evitato il disastro, hanno votato Berlusconi che ha
sprecato la grande occasione dell’euro. Dopo la fine della stagione
delle riforme, anche la sinistra, trascinata dalle sue frange più
massimaliste, si è adeguata.
iv) la classe dirigente italiana, con pochissime eccezioni
negli anni Cinquanta e negli anni Novanta, si è rivelata assolutamente
mediocre ed incapace di vedere oltre il proprio naso. Come i generali
francesi, si è sempre preparata per la guerra precedente. Non si è
accorta delle grandi trasformazioni della società italiana, non si è
resa conto del carattere eccezionale della crescita economica durante la
golden age (1950-1973) e non ha compreso l’enorme sfida della
globalizzazione. Tutte le classi dirigenti dei paesi occidentali hanno
peccato di miopia da questo punto di vista, ma quella italiana è stata
proprio cieca. A mio avviso Amato e Graziosi trascurano abbastanza il
ruolo delle classi dirigenti non strettamente politico/partitiche. In
particolare, manca una critica alla burocrazia ministeriale ed alla sua
cultura formalistico-giuridica, che negli ultimi anni è stata forse il
principale ostacolo alla riforma della pubblica amministrazione.
v) gli autori sottolineano con forza, ed a mio avviso
molto giustamente, l’importanza dei fattori demografici. L’abbondanza
di manodopera giovane negli anni Cinquanta e Sessanta è stato uno dei
fattori essenziali del miracolo economico – più in termini di energia
imprenditoriale che di riduzione del costo del lavoro. Ora
l’invecchiamento della popolazione è uno dei problemi più gravi del
paese, e gli autori giustamente ritengono un aumento dell’immigrazione
l’unica soluzione ragionevole
Il libro non si chiude con una proposta politica esplicita –
casomai si sente il rimpianto per le occasioni sprecate.
L’impostazione generale implica però una visione molto pessimistica.
Le classi dirigenti sono, se possibili, peggiorate e manca infatti in
Italia un obbiettivo condiviso che possa giustificare uno sforzo di
riforma, come lo era stato l’entrata nell’euro negli anni Novanta. Anzi,
gli autori notano con palese dispiacere come l’Europa sia divenuta,
nell’immaginario collettivo di una parte cospicua se non maggioritaria
degli italiani, il principale responsabile della crisi. Se solo i
tedeschi ci permettessero di tornare ai beati anni Settanta, ovviamente
pagando graziosamente il conto, tutti staremmo meglio. Aggiungo una
riflessione personale. Amato e Graziosi mettono in chiaro che la
redistribuzione ha favorito in maniera particolare alcuni gruppi
sociali – ed in particolare i dipendenti pubblici ed i pensionati (le
pagine sulla riforma delle pensioni degli anni Settanta sono fra le più
illuminanti del libro). Si rendono anche conto che la ripresa economica
richiede un drastico taglio della spesa pubblica. Ma non traggono le
conclusioni su chi deve pagare il conto. Forse è politicamente troppo
doloroso.
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