martedì 23 luglio 2013

AMATO SCRIVE DELLE GRANDI (ED ERRATE) ILLUSIONI DEGLI ITALIANI


Chi legge il Camerlengo sa che fui trentennale lettore di Repubblica, mostrando una fedeltà che non ho in altri campi e che è stata mal riposta. Però, quando si legge per lungo tempo un quotidiano, ci si affeziona ai suoi giornalisti e opinionisti, almeno una parte, e anche quando il giornale è profondamente mutato e molte delle vecchie firme sono state sostituite da altre che non apprezzi minimamente, si fa sempre una certa fatica ad abbandonare i "vecchi amici" ancora rimasti. Tra questi, nel giornale di L.go Focherini, Ilvo Diamanti.
Da rammentare anche che qualche anno fa non c'erano i quotidiani in rete gratuiti, e quindi non comprare il giornale significava non avere più accesso al pensiero di alcuni opinionisti. Ora è diverso (anche se non so per quanto rimarrà questa semigratuità...) e quindi senza l'onere di comprare Repubblica e La Stampa, posso la mattina "sfogliare " on line le testate cercando i pezzi dei giornalisti e commentatori che stimo (così facendo mi imbatto anche in altri, che magari considero meno, e magari li leggo, ma lo reputo un "incidente" positivo, alla fine. Sempre bene tenere larga la visuale...).
Questa lunga premessa per ribadire il mio apprezzamento per Diamanti e la mia delusione nel leggere l'articolo da lui pubblicato ieri che ho trovato sorprendentemente  banale. Nel passare in rassegna l'affaire kazako, accennando già che c'era alla sgradevole vicenda Calderoli, finendo anche per rivangare la condanna della spia americana colpevole del sequestro di Abu Omar ( che gli USA non estraderanno mai) , il sociologo e statistico nota con un po' di amarezza che tutto alla fine viene sacrificato al pragmatismo situazionale, e, nella fattispecie, alla  conservazione del governo, a torto o ragione considerato un "bene in sé". Evidentemente lui non la pensa così (nemmeno io se per questo...) , però quello che non condivido assolutamente è il rappresentare l'Italia, e Diamanti lo fa, come un Paese declinante moralmente (oltreché econimicamente) solo da 20 anni. Come se prima della seconda repubblica il nostro paese possedesse un tasso di civismo decisamente superiore all'attuale. AL massimo, si potrebbe parlare di meno peggio ! Ma non è che l'Italia che ho attraversato io, nato negli anni 60 e giovane in quelli 70 e 80, fosse questo ricettacolo di virtù poi andate perse.
Mentre rimuginavo su questo pensiero, m'imbatto in un bell'articolo di Giovanni Federico, uno degli autori della rivista web noiseFromAmerika, che, commentando un libro appena uscito di Giuliano Amato e Andrea Graziosi (GRANDI ILLUSIONI ed. Il Mulino )  ripercorre gli errori fatti in passati più remoti dell'ultimo ventennio, e che sono alla BASE della condizione italica odierna : l'ILLUSIONE che potevamo essere tutti "ricchi".
Di qui una serie di pretese, di individualismi corporativi, e di politiche clientelari assolutamente trasversali, dove di civico e di senso della comunità c'era ben poco caro Diamanti...
Non so se arriverò ad acquistare il libro, Amato non gode di grande appeal, però l'articolo è assolutamente interessante e ve lo propongo

Un popolo di illusi?

 
12 luglio 2013 giovanni federico
Giuliano Amato non gode di una grande reputazione in Italia di questi tempi. Gli ex-comunisti  non gli hanno mai perdonato di essere stato capo di gabinetto di Craxi. Gli ex-socialisti non gli perdonano di essersi schierato a sinistra. Gli italiani lo considerano l’epitome della casta – professore universitario, politico, detentore o ex-detentore di innumerevoli cariche e candidato permanente a tutte le altre. Eppure ha scritto, insieme ad uno dei più brillanti storici italiani, un libro che merita di essere letto e meditato con molta attenzione.
Il  libro è un mix, non sempre riuscito, fra ricostruzione “scientifica” della storia italiana dal dopoguerra ad oggi e pamphlet a tesi.  Per essere un pamphlet, di quelli che vanno di moda ora (130 pagine scritte larghe) presenta troppi fatti ed informazioni – compresa un’Appendice statistica. Come ricostruzione “scientifica” è spesso parziale e molte affermazioni sono relativamente poco documentate. In alcuni casi, come l'entità dei trasferimenti fra regioni e gruppi sociali mediati dal bilancio statale, mancano dati e ricostruirli è molto difficile (anche se sarebbe un contributo veramente importante alla conoscenza storica). In altri casi, si tratta di informazioni su fatti e persone note agli anziani politicizzati come me (io c’ero, almeno come osservatore). Probabilmente, un giovane o chiunque non abbia seguito molto l’attualità politica avrebbe bisogno di qualche ricerca aggiuntiva.  Non è quindi un libro facile da leggere sotto l’ombrellone.  Bisogna perlomeno essere su una veranda con accesso alla rete.  Il libro però merita un minimo di sforzo perché la tesi è molto interessante e largamente condivisibile, almeno da chi frequenta questo blog.
In sostanza, Amato e Graziosi sostengono che, a partire dai primi anni Sessanta, gli italiani si sono illusi di essere diventati ricchi e  quindi di potersi permettere un tenore di vita da grande paese europeo. Invece si stavano mangiando il capitale faticosamente accumulato nella straordinaria stagione di sviluppo nota come miracolo economico. In questo modo hanno ridotto le potenzialità di crescita dell’economia italiana fino a portare alla stagnazione, manifestatasi ben prima dello scoppio della crisi attuale. Si è trattato di una illusione, come si dice ora, rigorosamente bipartisan: la DC ed il PCI hanno gareggiato a offrire più diritti, più sussidi, più aiuti (a spacciare più illusioni) almeno  fino agli anni Ottanta. Dall’inizio degli anni Novanta alcuni coraggiosi (in primis Amato con la famosa finanziaria del 1992-1993) hanno tentato di invertire la tendenza, ma sono solo riusciti a convincere gli italiani che non si poteva avere di più. La maggioranza fatica ancora ad ammettere che anche i diritti già acquisiti sono economicamente insostenibili.  O meglio, l’Italia è formata da decine di minoranze, ciascuna delle quali è assolutamente convinta dell’opportunità di eliminare gli ingiusti privilegi altrui, ma risolutamente contraria a toccare i propri diritti inalienabili.
Non  è possibile in questa sede riassumere il libro, per ovvie ragioni. Mi limiterò a citare alcuni dei punti che mi sono sembrati più interessanti o anche criticabili
i) la necessità politica di una redistribuzione delle risorse mediata dallo stato è derivata in ultima analisi dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, che ha distrutto la fragile legittimità della classe politica risorgimentale e delle sue aspirazioni di grande potenza. Quindi si è manifestata già alla fine degli anni Cinquanta, quando il paese è uscito dal clima di emergenza della ricostruzione.
ii) il combinato effetto della protesta studentesca (il Sessantotto) e delle manifestazioni operaie (l'autunno caldo del Sessantanove) hanno accellerato un processo politico già in corso. Personalmente, trovo che gli autori tendano a sottovalutare l'impatto degli avvenimenti della fine anni Sessanta e delle riforme dei primi anni Settanta.  La crescita della spesa pubblica e del welfare a scopi redistributivi è stato un fenomeno comune a tutti i paesi avanzati. Solo in Italia, però, si è accompagnata ad una profonda (e disastrosa) riorganizzazione dello stato in senso regionale che ha moltiplicato i centri di spesa. E solo in Italia il Sessantotto/Sessantanova ha creato una mistica della “lotta” con relativa sospensione della legalità che, seppure in forme  attenuate, ci portiamo dietro ancora oggi, soprattutto nei servizi pubblici.
iii) trovo l’interpretazione della storia degli ultimi vent'anni alquanto manichea, anche se temperata da uno scetticismo di fondo sul popolo italiano.  Da un lato ci sono i buoni – la sinistra riformista che ha tentato di salvare l’Italia negli anni Novanta, con qualche (parziale) buon risultato. Dall’altro ci sono tutti gli altri, che, una volta evitato il disastro, hanno votato Berlusconi che ha sprecato la grande occasione dell’euro. Dopo la fine della stagione delle riforme, anche la sinistra, trascinata dalle sue frange più massimaliste, si è adeguata.
iv) la classe dirigente italiana, con pochissime eccezioni negli anni Cinquanta e negli anni Novanta, si è rivelata assolutamente mediocre ed  incapace di vedere oltre il proprio naso. Come i generali francesi, si è sempre preparata per la guerra precedente.  Non si è accorta delle  grandi trasformazioni della società  italiana, non si è resa conto del carattere eccezionale della crescita economica durante la golden age  (1950-1973) e non ha compreso l’enorme sfida della globalizzazione. Tutte le classi dirigenti dei paesi occidentali hanno peccato di miopia da questo punto di vista, ma quella italiana è stata proprio cieca. A mio avviso Amato e Graziosi trascurano abbastanza il ruolo delle classi dirigenti non strettamente politico/partitiche. In particolare, manca una critica alla burocrazia ministeriale ed alla sua cultura formalistico-giuridica, che negli ultimi anni è stata forse il principale ostacolo alla riforma della pubblica amministrazione.
v) gli autori  sottolineano con forza, ed a mio avviso molto giustamente,  l’importanza dei fattori demografici. L’abbondanza di manodopera giovane negli anni Cinquanta e Sessanta è stato uno dei fattori essenziali del miracolo economico – più in termini di energia imprenditoriale che di riduzione del costo del lavoro.  Ora l’invecchiamento della popolazione è uno dei problemi più gravi del paese, e gli  autori giustamente ritengono  un aumento dell’immigrazione l’unica soluzione ragionevole
Il libro non si chiude con una proposta politica esplicita – casomai si sente il rimpianto per le occasioni sprecate.  L’impostazione generale implica però una visione molto pessimistica.  Le classi dirigenti sono, se possibili, peggiorate e manca infatti in Italia un obbiettivo condiviso che possa giustificare uno sforzo di riforma, come lo era stato l’entrata nell’euro negli anni Novanta. Anzi, gli autori notano con palese dispiacere come l’Europa sia divenuta, nell’immaginario collettivo di una parte cospicua se non maggioritaria degli italiani, il principale  responsabile della crisi. Se solo i tedeschi ci permettessero di tornare ai beati anni Settanta, ovviamente pagando graziosamente il conto,  tutti staremmo meglio.  Aggiungo una riflessione personale. Amato e Graziosi mettono in chiaro che la redistribuzione ha favorito  in  maniera particolare alcuni gruppi sociali – ed in particolare i dipendenti pubblici ed i pensionati (le pagine sulla riforma delle pensioni degli anni Settanta sono fra le più illuminanti del libro).  Si rendono anche conto che la ripresa economica richiede un drastico taglio della spesa pubblica. Ma non traggono le conclusioni su chi deve  pagare il conto.  Forse è politicamente troppo doloroso.

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