martedì 24 settembre 2013

"I PROFESSORI UNIVERSITARI DEVONO ESSERE GLI ASCENSORISTI, NON I PASSEGGERI DELL'ASCENSORE "

 
Avevo letto sul Corriere l'articolo di Abravanel e mi era piaciuto. Così come reputo una cosa estremamente positiva trovarlo nella selezione di Quinto Stato, il blog di Giovanni Taurasi, intelligente esponente dal partito democratico modenese.
Stagioni mai tramontate del tutto del 18 politico, dello studio per tutti (giusto) , a prescindere dal merito, dalla capacità , dalle attitudini (sbagliato) hanno fatto e fanno ancora non pochi danni e sono tra le cause più importanti dell'inefficacia italiana dello studio come elemento principale per la forma auspicabile di eguaglianza. Che, a parer mio, non è quella dei punti di arrivo, ma di quelli di partenza. Impresa oltremodo difficile, ma irrinunciabile. Trovare n un blog dichiaratamente e legittimamente di sinistra questa esortazione mi conforta. Non vorrei essere frainteso. Sono in tanti, tra i liberal, i progressisti, a sostenere il punto di vista di Abravanel, però è altrettanto vero che c'è una parte diversa, dello stesso campo, che guarda con sospetto a parole come "selezione" e "meritocrazia". Viste come alibi per mantenere la disuguaglianza. Non è così, ma su questo aspetto, lo scontro è aperto.
Buona Lettura

"Il diritto allo studio dei mediocri non garantisce il posto di lavoro"   
 
L'altro giorno, nel corso di una trasmissione televisiva, il nostro premier ha ripreso con calore il tema del «diritto alla studio». Ha deplorato il fatto che da noi l'«ascensore sociale» si è bloccato e che una volta «i figli dei non abbienti potevano laurearsi e diventare professori universitari». Ha poi descritto il pacchetto d'iniziative del suo governo a sostegno del «welfare dello studente», tra cui cento milioni di euro in borse di studio. L'urgenza di affrontare il problema dell'uguaglianza di opportunità nello studio e nella società italiana è pienamente giustificata. In Italia c'è una disoccupazione giovanile spaventosa che colpisce soprattutto i non laureati, checché se ne dica. I laureati sono figli di famiglie più ricche. Con la crisi gli iscritti all'università calano, l'università è sempre meno un ascensore sociale e la società italiana continua ad essere la più bloccata e ineguale d'Europa. Ma quale diritto allo studio serve oggi all'Italia? Non certo quello che ha visto proliferare le «università sotto casa». Né quello delle lauree facili, che non portano all'occupazione perché le aziende non credono più ai 110 e lode di molte università, soprattutto del Centro-Sud. Non certo quello del parcheggio universitario, con il record mondiale di fuoricorso e di giovani che s'affacciano al mercato del lavoro per la prima volta a 27 anni, disoccupati che non vuole (quasi) più nessuno. Non il diritto alla laurea tre anni più due, che dev'essere sempre cinque perché, sennò, «non è una laurea seria». Non quello del caos nella selezione alle università, perché il voto alla maturità non vuole dire nulla e i test «fai da te» di molti atenei sono altrettanto poco credibili. Non quello delle centinaia di borse di studio date ai mediocri (selezionati in base a una maturità falsa) o ai figli di evasori fiscali (selezionati con la dichiarazione dei redditi, anch'essa falsa). E allora di quale «diritto allo studio» hanno bisogno i nostri giovani? Di un diritto allo studio che serva come acceleratore del «diritto al lavoro». Innanzitutto, per creare lavoro servono anche i professori universitari di cui parla il premier: non come sbocco di carriera, ma come docenti di una nuova generazione di giovani, con le competenze che si chiedono nel mercato del lavoro del Duemila e che sono radicalmente diverse da quelle di cinquant'anni fa. I professori universitari devono essere gli «ascensoristi», non i passeggeri dell'ascensore sociale. E per evitare che i cento milioni di euro per le borse di studio finiscano a sostenere privilegi e a diluire ulteriormente il merito, è fondamentale che vadano assegnate per le università «migliori», valutate non solo per i meriti accademici, ma anche perché i loro laureati trovano più facilmente lavoro. Oggi la variabilità del tasso di occupazione dei neo-laureati è alta e non dipende solo dal contesto economico locale, basta vedere i dati del consorzio Alma Laurea: un anno dopo l'uscita dall'università, alla Sapienza a Roma, il 67 per cento dei nuovi ingegneri e il 59 dei laureati in Economia sono occupati, contro il 74 per cento e il 65 di Roma Tre. Purtroppo, oggi, non si può sapere quali siano le università «migliori» nel formare i giovani per il lavoro, perché l'ente che «certifica» la bontà delle università italiane, l'Anvur, l'agenzia nazionale di valutazione, non valuta la didattica, ma solo la ricerca. Poi è auspicabile che queste borse di studio vadano date ai laureati con laurea triennale più che magistrale, per mandare più giovani sul mercato del lavoro, in tempi rapidi, e creare degli incentivi che rompano il tabù della «laurea vera». Queste borse di studio devono poi andare ai veri meritevoli che superano i test d'ingresso delle università più difficili (e in futuro, si spera, un test nazionale standard che sarebbe la unica soluzione al caos attuale). Sul Corriere abbiamo già illustrato la sperimentazione in corso al Politecnico di Milano e a Ca' Foscari, per capire se si possano sostituire i test d'ingresso all'università con il test Invalsi. Infine, le borse di studio vanno date a chi ne ha veramente bisogno, non guardando la dichiarazione dei redditi ma altre misure che pure esistono: per esempio, qualche anno fa, fu lanciata la social card che permise, dopo un lavoro di ricerca, d'identificare le famiglie italiane davvero povere. Soprattutto, queste borse vanno date chiedendo un impegno alle aziende italiane. Il premier dovrebbe dire alle aziende: «Io pago la borsa di studio e chiedo agli studenti di fare un percorso di stage o d'apprendistato presso le vostre aziende. Voi però dovete mettere a disposizione i posti di lavoro».

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