Credo che la legge Severino sia una legge fatta male, demagogica e populista. Sono lieto che il mio pensiero sia patrimonio comune con quello di un grande opinionista liberale e democratico come Davide Giacalone.
Il fatto di stabilire per legge che uno possa o no essere eletto se condannato per reati gravi...mi sembra un'invasione eticogiudiziaria in un campo riservato alla valutazione democratica degli elettori.
Ovviamente, se qualcuno è condannato, deve scontare la pena, su questo non c'è dubbio (parliamo di vicende normali, non di quelle dove il fumus persecutionis assomiglia ad un incendio), e se sta in prigione non sta in parlamento. Ma l'incandidabilità e la decadenza non riguardano solo il periodo di espiazione delle pena, ma anche il caso in cui questa lo sia già stata. Reo una volta, reo per sempre. E questo è piuttosto contrario col principio di recupero di chi è stato condannato (aer. 27 della Costituzione).
Un condannato per reati gravi difficilmente supererà il vaglio di affidabilità e consenso necessari per essere eletto. Se ciò accadesse, è la democrazia bellezza. Saremo un paese "incivile".
Tornando alla legge in questione, è scritta assai male, come spesso accade, e questo non è una buona cosa, specie in considerazione che a firmarla è stata un avvocato apprezzato, che dovrebbe sapersi esprimere in un lessico chiaro, oltre che giuridicamente linerare.
Nessuna delle due cose a quanto pare, visto il dibattito che si è acceso intorno alla sua interpretazione (che tanto chiara dunque non è) e ai seri dubbi di costituzionalità.
Io non mi cimento, che il semplice fatto di essere avvocato non mi conferisce una competenza necessariamente tuttologa nel campo del diritto. Però leggo con interesse e attenzione quello che scrivono docenti di diritto pubblico e costituzionale, di diritto penale, e mi pare che le critiche fiocchino.
In attesa di recuperare il testo dei Professori Marcello Gallo e Gaetano Insolera, pubblicati oggi, posto di seguito quello del Prof. Mario Dogliani, docente di diritto Costituzionale all'Università di Torino, che peraltro non si addentre nei meandri della legge, ma ricorda un principio che dovrebbe valere in ogni caso e per qualunque cittadino, anche Belzebù : se vi sono dei dubbi sulla legittimità costituzionale di una norma, sollevati dai soggetti competenti e avanti alla corte preposta, questi vanno risolti.
Sempre. Prescindendo che l'esito di quella norma ci piaccia assai.
Buona (e attenta) lettura
BERLUSCONI E LA LEGGE SEVERINO
La ragione giuridica uguale per tutti
Il modo con cui si sta svolgendo la discussione sull'applicabilità a Berlusconi della cosiddetta legge Severino rischia di generare non soltanto una confusione, ma un ribaltamento tra ragione giuridica e ragione politica.
Si dice: Berlusconi deve essere trattato come tutti. Deve quindi essere, come tutti, sottoposto alla legge e alle sentenze. La legge Severino deve conseguentemente essere applicata senza discussione. Questa posizione è stata presentata come di «intransigente difesa» dello Stato di diritto. Ben si comprendono le ragioni politiche di questa posizione, e i giudizi di valore ad essa sottesi. E del resto in un Paese normale una grave condanna penale per frode fiscale sarebbe percepita dagli stessi elettori di chi l'ha subita come infamante, e causa di allontanamento da ogni responsabilità pubblica.
Senonché la legge Severino è considerata da alcuni - e non solo da partigiani politici di Berlusconi - come non del tutto esente da dubbi di costituzionalità. Assumendo come «non manifestamente infondati» questi dubbi, che cosa vuol dire trattare Berlusconi come tutti? E continuare a difendere i principi dello Stato di diritto da Berlusconi? Vuol dire ammettere che questi dubbi devono essere risolti come ogni dubbio di legittimità costituzionale.
Così però oggi non sembra essere accettato. Una larghissima opinione tende infatti a presentare questi dubbi come assolutamente pretestuosi, e a presentare quindi coloro che non ne rifiutano a priori una minima sensatezza come dei collaborazionisti e dei nemici della «intransigente difesa» dello Stato di diritto.
Ecco il paradosso. Chi riconosce la plausibilità del dubbio e si rimette al principio del suo uguale trattamento viene fatto apparire come fautore di un privilegio odioso.
La questione diventa così molto pericolosa per il futuro della distinzione tra diritto e politica. La politica dovrebbe vivere sotto la Costituzione e le leggi. Questo elementare principio presuppone che l'attività giuridica (l'interpretazione dei testi normativi, le pronunce giurisdizionali... ) sia retta da una logica diversa da quella politica, e da una diversa deontologia.
Il giurista, quando parla da giurista - e pretende quindi di far valere il suo sapere - deve essere guidato solo dall'etica della convinzione e non deve rinunciare alla scommessa che il discorso giuridico sia in qualche modo orientato alla ricerca della «verità». Dal punto di vista della sua deontologia personale non è possibile - ed è bene che sia così, nell'interesse di tutti - che il giurista faccia tacere un suo dubbio per il timore di indebolire il realizzarsi di un proprio desiderio politico, per nobile che esso sia.
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