Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
lunedì 21 ottobre 2013
LA VILTA' DI INFIERIRE SU "IL CORPO DEL NEMICO". LA BELLA RIFLESSIONE DI SOFRI SULLA VICENDA PRIEBKE.
Sono passati alcuni giorni dalla brutta gazzarra messa in onda in occasione dei funerali di Priebke. Ne abbiamo scritto, riportando anche le opinioni di vari osservatori, a caldo.
Oggi, a mente più fredda, si pronuncia su Repubblica anche Adriano Sofri, insospettabile nella sua identità di uomo di sinistra e di nemico militante di ogni dittatura e barbaria razziale ( si batté con passione per i bosniaci oggetto della repressione serba nella ex jugoslavia, nonché degli eccidi dei ceceni da parte dei russi).
Nello scrivere di aver esaurito ogni goccia di pietà per il Priebke vivo, Sofri sottolinea, più volte, come l'odio, di altri, si sia ravvivato contro quello morto. Al cadavere si voleva fare quello che non era stato fatto all'uomo...lasciato libero di passeggiare per Roma nel lungo periodo dei suoi arresti domiciliari, farciti di permessi di varia natura. Una cosa di cui vantarsi, scrive Sofri, visto che a non essere oggetto di violenze di qualsiasi tipo era un uomo condannato per aver partecipato alla strage di vittime innocenti.
Ebbene, l'oblio - non certo il perdono- di chi è migliore, destinato a Priebke vivo, è , per un nutrito gruppo di persone, scomparso da morto. E non a caso anche Sofri richiama i precedenti certo non umanamente esemplari di piazzale Loreto, dove però si era all'atto finale (quasi) di una tragica guerra civile. Insomma, l'attenuante (che non concederei) delle cose "calde", vive.
In questo caso ?
Un brutto episodio, dove demagogia e retorica antifascista hanno mascherato lati oscuri del nostro essere umani. Tra questi, la viltà.
Perché è da vili infierire sul "corpo del nemico", come titola la sua bella riflessione Adriano Sofri.
Il corpo del nemico
NON sappiamo niente degli altri. Dobbiamo immaginarli, e abbiamo un solo modo: immaginarli per somiglianza o per differenza da come siamo noi, da quello che crediamo di sapere di noi stessi. Parecchi anni fa, fui costretto a immaginare Priebke. Immaginai che, per vanità e per cattiveria, sarebbe vissuto fino a cent'anni, che sarebbe stata la sua vendetta: l'ottusità del male ha molto di cui vendicarsi.
Che dovesse vendicarsi dei suoi giudici, dei suoi accusatori, del disprezzo della gente, ma soprattutto delle sue vittime. Era un vecchissimo nazista che sarebbe diventato un campione di longevità pur di non perdonare le proprie vittime. Non se ne parlava quasi più, di Priebke, tranne qualche sporadica ed effimera fiammata. Qualcuno distrattamente domandava: «Ma è ancora vivo?». Qualcun altro rispondeva: «Credo di sì, dev'essere ancora vivo ». Era a Roma, simulava di andare a lavorare dal suo avvocato, glielo revocavano, andava a fare la spesa, a messa, ai giardinetti. Il suo avvocato trovava spiacevole che fosse sempre scortato: «Sappiamo che questo è dovuto alla necessità di tutelarne l'incolumità, per quanto nelle sue uscite non sia mai stato oggetto di offese o, peggio, azioni violente», diceva. Questa era una notizia, e spero che in questi giorni l'opinione degli altri paesi europei non se ne dimentichi. Che in un quartiere di Roma abitava e camminava un criminale di guerra nazista, e che nessuno l'aveva fatto oggetto di offese e tanto meno di azioni violente. Bene: man mano che gli anni passavano e Priebke li compiva, fino a toccarne i cento, il minimo gruzzolo di pietà di cui quasi ogni essere umano è in credito presso i suoi simili si consumava. Priebke, come lo immaginavo, stava vendicandosi anche di quello. Glielo stava facendo pagare, a chi non avesse spento in sé un avanzo di compassione, e specialmente alle sue innocenti vittime – le vere colpevoli della sua iniqua disgrazia, quelle che volevano rovinargli la vita. Vivere molto a lungo non è merito né colpa. Lui voleva vendicarsi. È arrivato fino alla vigilia di un più solenne anniversario del 16 ottobre. Questo immaginavo, e non mi è rimasta pietà per Priebke: esaurita. Il cosiddetto testamento, la rivendicazione postuma dell'infamia, è recita, stava nel copione, che sia opera sua o dei suoi, è ovvia e disgustosa, ovviamente disgustosa.
Ora è bisognato immaginare le reazioni delle persone. Non dei famigliari delle vittime delle Ardeatine, o dell'ottobre '43: quelle basta ascoltarle, onorarle, soprattutto amarle. Le altre. Il modo in cui autorità e persone hanno pensato di trattare il corpo del nemico (Priebke era il nemico, e per cattiveria e vanità portava quel titolo appeso all'occhiello): ma ora era il corpo del nemico morto. Ci aggrappiamo ai classici, che però trasferiscono, con tutto lo scempio di cadaveri che contengono, nel troppo respirabile aere della poesia, della religione, del mito: Achille e il cadavere di Ettore, Antigone e Polinice. Poi c'è la salma di un centenario. La si è trattata come se fosse un Priebke più vero del Priebke vivo, quello che, senza offese e aggressioni, camminava fino a poco fa nelle strade dell'estate romana. Si è rinnovato un malinteso pieno di precedenti – piazzale Loreto, che era stato preceduto da un piazzale Loreto a parti inverse – che invocavano l'attenuante del furore caldo da sfogare. Ferite come la strage delle Ardeatine, come la deportazione e lo sterminio, non si risarciscono, ma il loro furore si
rapprende, e non smette perciò di essere terribile. Opporsi a una fomentata gazzarra neofascista è giusto, calci e sputi a un carro funebre hanno a che fare con altro. Scambiano il cadavere di Priebke per Priebke, che passeggiava indisturbato. La chiesa romana di tanto tempo fa dissotterrò un cadavere di papa, lo processò, gli mozzò le dita con cui aveva benedetto e lo buttò in Tevere. Si può ancora trafugare un cadavere e infierire: ma è un reato, si deve fare contro la legge e disporsi a pagarne il fio, o lo sfizio.
E la sepoltura? Volevano farne un richiamo per gli aspiranti alle stesse infamie. C'erano tutti i mezzi per vietarlo. Ma vietare la sepoltura continua il malinteso. Né lo stato, né altre autorità dispongono di un uomo morto. C'è stato, nella discussione di questi giorni, un presupposto non dichiarabile: che, trascorso il tempo in cui, vivo, Priebke era detenuto e protetto dal braccio secolare dello Stato, il morto ne venisse sciolto e consegnato alla collettività. In regime di proprietà privata, il corpo verrebbe espropriato alle disposizioni testamentarie del suo titolare vivo per diventare bene-male-comune. L'ergastolo è una condanna a vita – fine pena mai, ma il mai si estingue con la vita del dannato. Sul corpo esanime, non si esercitano diritti collettivi. Per disperdere d'autorità le ceneri di un nemico, occorre andare a catturarlo e ucciderlo in un nascondiglio pakistano, e farla franca. Dove vige la legge, non si può. A Roma fu compiuta la rappresaglia infame, Roma è offesa di dar sepoltura a un suo autore. È un argomento forte, purché non insinui che ci sono luoghi che invece se lo meritano – "mandiamolo in Germania" – o luoghi indifferenti, perché quella infamia non li toccò. Abbiamo le nostre grane con lo smaltimento dei rifiuti, non dovremmo duplicarle coi resti umani. Se mettere sotto una terra un uomo morto, o disperderne in un mare le ceneri, offendesse irreparabilmente, sarebbero tutta la terra, ogni mare, a esserne offesi.
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