Il solito superbo, grandissimo Luca Ricolfi.
Delle tante analisi lette dopo la vittoria di Renzi alle primarie del PD, questa la trova largamente la più lucida e cogente.
Trovare in un autore che stimo profondamente la conferma di alcune mie pessime sensazioni, e cioè di un "secondo" Renzi, diverso da quello delle prime Leopolde, di FUORI, che aveva fatto sperare in un leader finalmente Liberal, stile Blair e Clinton, per capirci, gratifica ovviamente il narcisismo del blogger.
Al di là di questo, chi può contestare quanto scrive Ricolfi ?
La chiosa è fantastica : se continua così, sarà il PD(S) ad aver trasformato Renzi, e non viceversa ( e l'abbraccio ieri con Landini va in questa direzione).
L'affermazione che la Sinistra attuale sia la forza più conservatrice che esista nel panorama politico italiano è patrimonio di tanti autori di quella parte ( Sansonetti, Caldarola, Sofri, father and son, Ichino, Piccolo ) che non serve certo un liberale a ribadirla. La spiegazione del resto appartiene alla logica : attraverso la spesa pubblica e il debito sono stati creati negli anni 70 un welfare e un sistema Lavoro pazzeschi. Un bengodi che economisti e politici, nella grande maggioranza (e non parlo solo di quelli italiani, ma mondiali), affermano non più sostenibile nelle misure conosciute. Bisogna ridimensionare, e per non far male ai poveri veri, bisogna farlo con sapienza, in modo che alcuni abbiano poco ( i benestanti), altri meno e i veramente deboli di più. E' avvenuto con la scala mobile ( e ci volle il coraggio e la sfrontatezza di Craxi ) , dovrà avvenire con la Cassa Integrazione, che tutela solo alcuni e non è certo estensibile a tutti. Ma è solo un esempio.
Parimenti nella scuola, divenuto serbatoio di voti che ha sostituito la classe operaia, ma che vede tanti insegnanti su posizioni peggio che conservative, le definirei reazionarie per quanto sono avulse dalla realtà di oggi, con uno scollegamento TOTALE tra insegnamento e formazione adeguata ad un mondo del lavoro completamente trasformato (e dove quindi sono richieste altre abilità, come saper lavorare in squadra, la capacità di solving problem, la maggior conoscenza di materie matematiche e scientifiche), e quindi un aggiornamento a 180 gradi della classe insegnante. Invece il governo Letta pare voler far fuori il metodo Invalsi, che misura (con criteri probabilmente migliorabili, ma intanto è stato un inizio importante) il livello di preparazione dei nostri ragazzi e QUINDI dei loro professori, che infatti sono OSTILI a prescindere...
Le parole MERITO, abolizione dei tavoli consociativi (tanto cari ai sindacati), semplificazione, erano le parole d'ordine di Renzi. Lo sono ancora, ma i progetti per attuarle si fanno sempre più fumosi, mentre sono, ahimè, aumentati gli abbracci coi soliti noti.
Attenzione che alla fine non sia Renzi il pedalino rivoltato
L’impervia strada di Matteo
Questo è importante, perché ci toglie dal dilemma di questi otto mesi: meglio tenersi il timido Letta, o rischiare il ritorno alle urne senza una nuova offerta politica? Con Renzi chi vuole un vero cambiamento sa che potrebbe anche ottenerlo, perché il ragazzo è determinato. Ma sa anche che, se il cambiamento non si materializza, si può andare alle urne senza porcellum, e con qualche proposta politica nuova.
Fin qui tutto bene. Questa è la faccia migliore della luna. C’è anche una seconda faccia, tuttavia, e tanto vale parlarne subito: non è detto che Renzi abbia coraggio a sufficienza. E se Renzi si rivelasse un bluff, la luna della politica potrebbe riservarci il suo lato peggiore. Con effetti catastrofici, temo.
Vediamo perché.
Per capirlo occorre partire da due recentissime prese di posizione pubbliche, due specie di lettere aperte rivolte l’una a Enrico Letta (a firma Giavazzi e Alesina, sul Corriere della Sera), l’altra a Matteo Renzi (a firma Pietro Ichino, dal suo sito). L’elemento comune a questi due interventi è il perentorio, o accorato, invito a uscire dal generico. La richiesta di rispondere su una quindicina di punti fondamentali, su cui non solo il governo ma anche Renzi non hanno preso posizioni chiare o, nel caso di Letta, hanno fatto annunci senza passare dal dire al fare.
Il tratto distintivo dei punti toccati da Alesina, Giavazzi e Ichino, tuttavia, è la loro prosaicità. Pochi voli pindarici sull’obbrobrio del porcellum, sugli scandalosi stipendi dei manager, sulla politica ladra e corrotta, sulla necessità di «dare una speranza», ma una ben più corposa lista di decisioni da assumere sul deficit pubblico, sull’entità dei tagli di spesa, sulle assunzioni nella scuola, sulle imprese pubbliche decotte, sulle privatizzazioni, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulla giustizia, sul mercato del lavoro (inclusa l’incandescente disciplina dei licenziamenti). Quasi tutti punti su cui non solo il prudente Letta ma anche lo scanzonato Renzi hanno finora detto ben poco, o per lo meno ben poco di preciso nei modi, nei tempi e nelle cifre.
Il perché della reticenza di Letta è chiaro. Democristianità a parte, è soprattutto l’assenza di un accordo programmatico ben definito (come quello Merkel-socialdemocratici) che lo costringe a prendere «impegni vaghi», un atteggiamento che giustamente Alesina e Giavazzi considerano una colpa, in quanto danneggia il paese. Il perché della reticenza di Renzi lo spiega benissimo Pietro Ichino quando nota (e dimostra) che il Pd «è il più conservatore fra i partiti italiani». Questa circostanza spiega perfettamente la metamorfosi di Renzi: audace e tutto sommato abbastanza chiaro fin che doveva sfidare Bersani (primarie dell’anno scorso), è diventato sempre più guardingo, sfuggente e astuto quando, in questi ultimi mesi, gli si è presentata la possibilità reale di conquistare la cittadella del Pd, l’unico vero apparato di partito rimasto sul terreno di gioco. Renzi sa benissimo che, in qualsiasi sede, incontro, festival o grigliata democratica, Susanna Camusso prende più applausi di Pietro Ichino, e a questo dato di fatto ha deciso di attenersi, mettendo la sordina su tutti i temi, dal mercato del lavoro al rispetto degli elettori di Berlusconi, che lo avevano reso indigeribile al popolo di sinistra. Una strategia comunicativa perseguita con coerenza e lucidità, e ingenuamente confessata da quello che pare essere divenuto il principale consulente di Renzi in materia economico-sociale, Yoram Gutgeld, di cui è appena uscito il libro-manifesto Più uguali, più ricchi (Rizzoli). Nelle pagine iniziali del libro, Gutgeld esalta l’equità e la meritocrazia (che creano sviluppo economico), e critica l’eguaglianza e l’egualitarismo (che frenano lo sviluppo), salvo poi spiegare che non se l’è sentita di intitolare il libro «Più equi, più ricchi», perché la parola «equità» e ancor più l’aggettivo «equo» sono termini «freddi». Meglio il titolo «Più uguali, più ricchi», che alimenta l’equivoco, fa credere l’esatto contrario di quel che si vuol dire, ma almeno scalda i cuori degli elettori di sinistra.
Ha fatto bene Renzi ad adottare una simile strategia di «dissimulazione onesta»?
Chi crede fermamente in lui, giura di sì. L’importante era ed è vincere, e per vincere le prossime elezioni bisognava dare al popolo quel che il popolo chiede: tanta polemica anti-casta, tanta voglia di facce nuove, tanta retorica del ricambio generazionale, il tutto condito con un pizzico di polemica con l’Europa e i suoi vincoli paralizzanti. Un ragionamento che, a quel che sento in giro, coinvolge anche i più riformisti fra i renziani: per fare le cose che Matteo predica, bisogna prima conquistare il Pd e il Governo, e solo poi preoccuparsi dei contenuti più difficili da far accettare all’elettorato di sinistra, e presumibilmente anche al resto del paese.
Questo ordine di pensieri, più o meno spregiudicati e machiavellici, sono certamente congeniali a una parte dell’elettorato di sinistra, e specialmente alla sua parte più anziana, spesso di matrice comunista, da sempre abituata alla doppia verità e convinta che il fine, quando è buono, giustifichi i mezzi, anche quelli cattivi. Ma proprio il fatto che la cultura comunista, le sue abitudini mentali, i suoi riflessi condizionati, siano ancora così radicati nell’elettorato di sinistra, dovrebbe forse suggerire anche un diverso genere di riflessione. Se Renzi, come pensano i suoi detrattori, ambisce solo a sedersi sullo scranno di palazzo Chigi, nessun problema: potrebbe anche farcela. Se però, come molti di noi si augurano, il Davide della politica italiana, dopo aver vinto il gigante Golia dell’apparato di partito, nutrisse anche l’ambizione di provarci, a cambiare questo sciagurato paese, forse farebbe bene a non trascurare un altro tratto della cultura di sinistra, e non solo di essa: il gregarismo, il conformismo, l’attitudine a fiutare l’aria per poi correre tutti nella medesima direzione. Il plebiscito che ha sbalzato Bersani e incoronato Renzi è stato troppo repentino per non evocare altri cambiamenti di umore degli italiani, da fascisti ad antifascisti (nel 1943-45), da clientes dei partiti di governo a giustizialisti duri e puri (nel 1992-94).
La realtà è che Renzi, per ora, non ha affatto cambiato il Pd, come vent’anni fa aveva invece fatto Tony Blair con il Labour Party, attraverso una lunga battaglia a viso aperto. Semmai, è l’elettorato del Pd che ha cambiato Renzi, o lo ha indotto a crittare il suo messaggio originario. Si tratta ora di capire se sarà l’elettorato del Pd a usare Renzi per conquistare quella vittoria che Bersani non è stato capace di regalargli, o sarà Renzi a cominciare, pazientemente, quell’opera di trasformazione delle coscienze che è la premessa di ogni vero cambiamento.
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