LA FACILE RETORICAANTIMAFIA E LE (BRUTTE) SORPRESE DEI SUOI CAMPIONI
Chi crede fermamente nel garantismo, e il Camerlengo è tra questi, non può avere amnesie nel caso sotto indagine finiscano persone non gradite, a qualsiasi titolo.
E quindi, pur stupito nel leggere che due icone della lotta civile contro le mafie, Carolina Girasole e Rosy Canale siano ora sotto inchiesta penale, la seconda con l'accusa di aver lucrato illegalmente da questo suo coraggioso (bé, sulla carta lo è) impegno civico, l'altra addirittura di essere collusa con quella stessa 'ndrangheta che di giorno non cessa di attaccare, ripeto come sempre : ASPETTARE.
Certo, dovesse poi accadere che le accuse vengano confermate e tradotte in condanne (definitive), ebbé sarebbe una lezione sempiterna per quella retorica che da sempre abbonda in questo campo, prendendo il posto di politiche e azioni efficaci da parte dello Stato.
Proprio questo denuncia Ernesto Galli della Loggia ( che però ha il torto, a mio avviso, di anticipare i verdetti sui due casi dai quali parte per la sua giusta riflessione generale) nel suo articolo odierno sul Corsera, del quale vi auguro
Buona Lettura
TROPPA RETORICA E POCA LEGALITÀ.
Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e
dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai
casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro
attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni
scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti,
come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la
’ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti
prestatile dal clan ’ndranghetista Arena, che ha poi favorito
consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i
terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale — fondatrice
del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative
a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi,
comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità
organizzata» — aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle
più impensabili fonti, che però — come è stato rivelato dalle
intercettazioni telefoniche — ha impiegato regolarmente per uso
personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se
stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi
vari.Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal
nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di
fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto
sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura
della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che
in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità
varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in
giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche
precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori,
ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità»
organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo.
Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti
qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista — di
nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di
esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che
sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel
cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della
Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro
l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola
alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano
riscuotere specialmente nel Mezzogiorno.Le cui speranze invece — se
ancora ce ne sono — stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e
semplice applicazione della legge.Per esempio nell’azione di uomini come
quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il
Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali — il capitano Vincenzo
Falce e il colonnello Francesco Ferace — nonché quello del magistrato
che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe
Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno
smantellato la rete di dominio assoluto che la ’ndrangheta aveva steso
da tempo su quella cittadina del Catanzarese. Dapprima facendo eleggere
sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera
per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su
qualunque cosa.Nel discorso pubblico, alle tante parole dei
professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della
legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria
l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace,
massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità.
Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata —
criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza
italiana — non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o
dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un
maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di
polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle
condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono
stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica
«carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e
riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno
soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di
recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o
dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia,
vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che
lo Stato è presente. E — se non è dire troppo — pronto a colpire.
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