mercoledì 22 gennaio 2014

IL DIFFICILE CONFINE TRA RISPETTO DELLA COLLEGANZA E LE RICHIESTE DEL CLIENTE. LA CASSAZIONE NEGA RIGUARDI DI CATEGORIA


Meditate colleghi, meditate 
Sono passati i tempi dove per poter citare in giudizio un collega, magari per il solito contrasto con l'ex cliente circa gli onorari, dovevi prima rivolgerti al Consiglio dell'Ordine, che peraltro ovviamente non è che avesse un diritto di veto, ma cercava di mediare sul conflitto insorto per vedere se fosse possibile evitare una causa. Qui addirittura una querela era stata presentata, ancorché poi, nel leggere la vicenda nei particolari, alla fine la stessa non andava imputata all'avvocato (forse nemmeno  estensore, che pare avesse provveduto poi altro collega...) ma al cliente che l'aveva sottoscritta e presentata individualmente. 
La Cassazione, pronunciandosi addirittura a sezioni unite, il che quantomeno fa pensare ad un certo travaglio giurisprudenziale, ha comunque affermato un principio generale per il quale il difensore che querela un altro non è soggetto a sanzione disciplinare anche in caso di archiviazione della stessa se non nei casi in cui  l'infondatezza non fosse di evidenza marchiana, negando quanto affermato dall'organo disciplinare che, nel comminare un peraltro blando richiamo, aveva ricordato come, nel caso di un collega, il redattore della querela avrebbe dovuto usare una attenzione ancora più rigorosa nell'esaminare i fatti sottopostigli . La Cassazione nega recisamente questa distinzione. L'attenzione deve riguardare la verosimiglianza e la non palese infondatezza, principi che valgono ovviamente per tutti, ma non oltre questo, e non ci sono prerogative particolari per gli avvocati. 
Messa così,  si può  essere d'accordo. Però sarei curioso di sapere se il collega querelante avesse almeno fatto una telefonata all'altro per avere una sua versione dei fatti rispetto a quella del cliente (che poi, lo preciso, si è mostrata infondata, tanto che la querela è stata archiviata, nemmeno è arrivata all'udienza preliminare), se avesse tentato una mediazione, una soluzione bonaria, e solo DOPO questo, avesse redatto la denuncia.
Mi rammento una vicenda che mi accade tanti anni fa. Un collega chiedeva il saldo del proprio onorario, il cliente, insoddisfatto, non voleva pagare e si era rivolto a me. Io cercai di capire bene i motivi del rifiuto, e poi contattai il collega per spiegare gli stessi e chiedere se fosse possibile una transazione. Ovviamente si tratta di argomento delicato, però in effetti qualcosa di storto era andato nella conduzione dell'incarico e magari ci si poteva venire incontro. Ma non è la sostanza che conta, quanto la forma in questo caso. Io non solo telefonai, ma scrissi almeno tre fax (allora le mail non c'erano) nei quali spiegavo di aver ricevuto mandato di contestare in tribunale la richiesta - ancora non giudiziaria - degli onorari e proponevo, successivamente,  delle soluzioni alternative, dichiarandomi pronto a persuadere il cliente, a sua volta rigido, ad accettare. 
Nulla. Alla fine, per evitare un decreto ingiuntivo, agii, citando il collega e peraltro chiedendo NON di non pagare, ma che fosse il giudice a stabilire, valutando ovviamente le nostre osservazioni, quale fosse il giusto onorario. E non chiesi condanna alle spese, ottenuto faticosamente il placet del cliente. Bene, il collega mi deferì al Consiglio dell'Ordine per averlo citato senza prima adire lo stesso Consiglio come allora la norma deontologica, poi abrogata, prevedeva. L'istruttore della questione fu il bravo Titta Madia che mi telefonò e mi chiese con molto garbo la mia versione. Io potei, grazie ai fax e anche al tenore della citazione, dimostrare come, pur non attenendomi alla norma in senso stretto (che confesso non conoscevo), ne avevo assolutamente rispettato lo spirito adoperandomi fattivamente per evitare la causa che coinvolgeva un collega e determinandomi alla fine ad agire solo a tutela degli interessi del cliente, esposto ad una ingiunzione di pagamento e quindi ad una posizione processuale più debole. Il Consiglio dell'Ordine non solo archiviò ma Titta Madia usò. nella motivazione della proposta di archiviazione, parole di elogio per la condotta da me tenuta. Conservo con cura quel documento, uno dei non tanti bei ricordi di una professione condotta con fatica, lo confesso. 
Credo e temo fossero altri tempi, che la crisi della professione, acutissima, rende molti avvocati del tutto insensibili a condotte che dovrebbero far parte nemmeno di un codice deontologico, ma di un normale agreement professionale e di colleganza. 
Ci sarà da ridere nei prossimi anni, con il giro di vite sugli errori professionali (vedrete, arriveremo ai livelli dei medici) e la condanna in solido alle spese legali per "lite temeraria".
E' mia ferma determinazione non invecchiare consumando le suole nei palazzi di giustizia quindi la cosa potrebbe toccarmi poco, ma non prevedo  scenari fausti.


sentenza 1002, sezione Unite civili, del 20-01-2014

Non incorre in sanzione disciplinare l’avvocato che denuncia un collega per conto del cliente

È sufficiente che non fosse palese l’infondatezza delle accuse circa l’inerzia del primo difensore

di DEBORA ALBERICI
Non può essere punito con una sanzione disciplinare l’avvocato che denuncia per conto del cliente il primo difensore in relazione a una sua presunta inerzia. La responsabilità sussiste solo ove fosse palese l’infondatezza delle accuse.
Lo hanno stabilito le Sezioni unite civili della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 1002 del 20 gennaio 2014, hanno accolto il ricorso di un legale che aveva querelato il primo difensore di una sua cliente in relazione a una presunta inerzia nella conduzione della causa. Per questo la professionista era stata censurata dall’Ordine.
Ora il Massimo consesso di Piazza Cavour ha annullato la misura. Contrariamente a quanto statuito in sede disciplinare, - spiega la Cassazione - la norma deontologica non imponeva né impone una valutazione fattuale improntata ad un ben maggiore approfondimento, dovendo agire contro dei colleghi. Tale, invero singolare affermazione appare, difatti, in contrasto con elementari principi costituzionali, oltre che foriera di una sorta di impredicabile "riguardo di categoria" imposta all'esercente la professione forense in guisa di lex specialis ex non scripto dal massimo organo disciplinare. Ciò che si richedeva all'avvocato censurato era non altro che un'analisi di verosimiglianza e di non palese infondatezza del contenuto delle dichiarazioni del cliente;

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