Molto bello l'articolo di Roger Abravanel sulla scuola che dovrebbe far riflettere TANTO, ma TANTO la nostra classe insegnante e dirigente.
Sempre a parlare di tagli, della scuola deprivata di mezzi, il nostro futuro depauperato.
La verità è che la nostra scuola declina non (tanto) per mancanza di mezzi ma perché questi sono spesi MALE e principalmente per stipendiare i disoccupati che ingrossano questa categoria di lavoratori (o aspiranti tali). Succede lo stesso in tutti i settori dell'amministrazione pubblica, dove la stragrande maggioranza delle risosrse se ne va in stipendi anziché in mezzi e investimenti.
Ogni tentativo fatto per migliorare la qualità, istituendo strumenti volti a misurare l'apprendimento degli studenti e, di conseguenza, anche la capacità dei loro insegnanti, ha suscitato urla arrivate fino al cielo, e alla fine vengono ascoltate, che il nostro imbalsamato premier (ma a chi piace Letta ???) sembra intenzionato a eliminare anche gli Invalsi, che una novità - migliorabile come tutte le cose - in questo senso l'avevano portata.
Secondo quanto riportato nell'articolo, tra le scuole che stanno crescendo enormemente ci sono quelle asiatiche, tra cui il non certo ricco Vietnam, mentre in Europa brilla la Polonia, altro paese che non ha un'economia che consenta chissà che spese. Però quelle fatte vengono fatte BENE.
Soprattutto, paesi diversissimi per geografia, economia e cultura, sembrano avere in comune la stessa parola d'ordine : etica dello studio e del lavoro. Studiando molto e bene, tutti possono avere vere e valide opportunità di raggiungere un buon lavoro. Perché questo accada, devono migliorare gli insegnanti, e questo riguarda anche quelli "bravi" che devono cambiare approccio. C'è qualcosa che non va se siamo sempre così indietro, specie nelle materie scientifiche, e cosa dire del ricorso sempre più diffuso alle ripetizioni per cercare di far promuovere i propri figli ?
Sembra quasi che a scuola i professori non si preoccupino più di insegnare e che i propri studenti apprendano, ma solo di impartire compiti e programmi che poi gli studenti devono cercare di assimilare con l'aiuto a casa dei genitori e più spesso di ALTRI insegnanti. Non mi sembra un sistema giusto, ma, soprattutto, NON funziona, se poi il livello medio degli studenti è quello che viene denunciato.
Consiglio di leggere
EUROPA E ITALIA
Scuola, la formula magica non esiste
Funziona la molla del riscatto sociale
In questi giorni i media stanno commentando il piccolo ma positivo miglioramento degli studenti italiani ai test PISA 2012, i programmi di valutazione internazionale degli studenti. Per capirne meglio le implicazioni è però necessaria una lettura più ampia del rapporto OCSE che rivela tendenze interessanti a livello internazionale.
Ogni tre anni studenti di molti Paesi hanno risposto a test standard su matematica,comprensione dei testi e scienze, permettendo all’OCSE di pubblicare dei paragoni sulla qualità delle loro scuole e sulle tendenze. Così è stato nel 2012 per 500.000 studenti di 65 Paesi (ovviamente a campione). I risultati sono stati pubblicati il 3 dicembre e contengono molte conferme e alcune novità rispetto alle edizioni passate. Innanzi tutto perde terreno la Finlandia,di gran lunga un modello da quando è partito il PISA : colpisce molto perché crolla un po’ un mito ma alla fine le scuole finlandesi restano le migliori d’Europa. Poi, come ormai noto, l’Italia migliora un po’, ma resta relativamente agli altri Paesi nella stessa mediocre posizione, più o meno al trentesimo posto, sia in matematica sia in lettura dei testi che in scienze. Ma la cosa più eclatante è che un nutrito gruppo di Paesi, fa un ulteriore balzo in avanti e da buoni diventano super: sono le «tigri asiatiche» (Shangai, Hong Kong,Corea del Sud, Singapore e il sorprendente Vietnam) e la Polonia, «tigre europea».Tutti questi Paesi avevano già avuto ottimi risultati, che spesso diventavano eccezionali in relazione al loro livello di reddito, eppure sono migliorati ancora. Come hanno fatto?
Non sembra esistere una formula magica nell’organizzazione scolastica, c’è poco in comune tra scuole polacche e coreane. Né sembra dipendere da un fattore di spesa. Le scuole vietnamite spendono molto meno di quelle americane ma sono andate decisamente molto meglio. Si potrebbe pensare a un fattore culturale, ma dal punto di vista etnico e culturale le differenze sono enormi. Cosa hanno in comune un malese di Singapore, un polacco e un coreano? Eppure tutti questi Paesi hanno qualcosa in comune: una convinzione diffusa da parte di alunni, famiglie e insegnanti che l’impegno, l’etica dello studio e del lavoro fin dai banchi di scuola sia il passaporto per una vita migliore. In questi Paesi la scuola viene presa seriamente perché è effettivamente una cosa seria. La società ha deciso che la scuola era importante per lo sviluppo sociale ed economico e così è stato. L’esame di maturità è un appuntamento importantissimo non per la scuola ma per la vita e per il lavoro. La scuola è diventata veramente un elemento essenziale delle pari opportunità perché anche i figli di famiglie poverissime riescono ad ottenere ottimi risultati e questo significa che non vi è grande differenza tra le scuole. In queste scuole si insegna un’etica del lavoro diversa dallo sgobbare sui libri per imparare tutto a memoria cui eravamo abituati noi nelle scuole nozioniste di 30 anni fa. Un’etica ben diversa dall’immagine stereotipata e un po’ razzista dei ragazzi asiatici irregimentati in uno studio mnemonico e ripetitivo. I ragazzi di Shangai per una buona metà hanno una «profonda preparazione concettuale della matematica». Per fare questo la didattica durissima a cui si sottopongono richiede insegnanti che non leggono un testo e poi interrogano gli studenti, ma sono capaci di interessarli, farli ragionare e convincerli di poter migliorare. Sono scelti tra i migliori laureati del Paese, ma non guadagnano somme enormi, perché si sentono molto importanti per la società.
La crescita economica di questi Paesi dà loro ragione, perché l’economia del mondo di oggi richiede ai giovani delle competenze diverse da quelle che servivano venti o trent’anni fa. In primo luogo, una nuova etica del lavoro. Si richiede l’impegno intelligente, non quindi solo il basso assenteismo e la precisione nell’applicare le procedure e le istruzioni dei capi, ma la capacità di risolvere problemi in piena autonomia, di prendere iniziative innovative assieme ad altri e di comunicare con grande efficacia con clienti e colleghi. Le super scuole di questi Paesi con il loro misto di insegnamento intelligente e disciplina rigorosa hanno un duplice ruolo: insegnare l’etica del lavoro del ventunesimo secolo, un misto di disciplina, problem solving e creatività, e garantire ai datori di lavoro che chi esce da certe scuole, con certi voti, ha il profilo giusto.
E qui veniamo all’Italia. Si è fatto qualche passo avanti e lo testimoniano i Pisa degli ultimi 6 anni e il miglioramento di regioni come la Puglia, dove si è deciso di prendere la scuola più seriamente. Ma moltissimo resta ancora da fare, dato che continuiamo a navigare nella totale mediocrità. Se la prima funzione della scuola, quella di insegnare a studiare e a pensare, ancora resiste, si è quasi del tutto persa la seconda, quella di certificare le qualità degli studenti presso i datori di lavoro. Dice il responsabile delle risorse umane di una importante azienda del nord: «Non crediamo più ai voti delle scuole, sono completamente soggettivi, soprattutto in quelle che sappiamo non essere le migliori scuole». Eppure le possibilità ci sono. L’analisi Ocse Pisa del 2012 dimostra che l’Italia è il Paese dove la maggior differenza di punteggio nei test degli alunni è legata alla scuola da essi frequentata. Le buone scuole producono quindi alunni preparati anche da noi. In questi anni l’Invalsi ha costruito una grande opportunità di restituire valore di mercato ai voti delle nostre scuole, garantendone la qualità. Ma oggi, come paventato nel recente editoriale di Andrea Ichino su questo quotidiano, il governo Letta sembra voler buttare a mare questa possibilità, continuando a ribadire i vecchi stereotipi delle «risorse da restituire alla scuola», ignorando così che il (lieve) miglioramento della scuola italiana di questi anni è avvenuto proprio in corrispondenza dei famigerati «tagli».
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