Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
sabato 15 marzo 2014
LA SUPREMA CORTE RIVEDE I CONFINI DELLA CONCUSSIONE. LA SENTENZA RUBY TREMA ?
Ognuno continuerà a pensarla a modo suo sul Rubygate. E quindi io a ritenere che , tra tutti, è quello che più dimostra come Berlusconi sia stato il colpevole più perseguitato della storia della (in)giustizia italiana. Non sto qui a ricostruire la vicenda, mi limito a segnalare questa importante, recente pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite che intervenendo sulla pessima legge Severino, criticata , al di là dei suoi aspetti sostanziali, anche per quelli formali, e precisamente per l'ambiguità e addirittura indeterminatezza di certi suoi passaggi, ha stabilito che perché si possa parlare di reato di concussione, e non della meno grave ipotesi di induzione, ci si deve trovare di fronte alla prova evidente di una costrizione assoluta, alla quale il soggetto destinatario, che infatti viene definito "vittima", non può praticamente opporre resistenza : si trova con le cosiddette spalle al muro.
Ecco, nemmeno la procura di Milano arrivò ad immaginare tanto nel caso della famosa telefonata di Berlusconi alla Questura di Milano, e infatti ipotizzò il reato di "induzione", dove l'azione è più "seduttiva" che coercitiva, e la "vittima" conserva una più ampia sfera decisionale.
Il plotone di esecuzione delle tre giudici militanti di magistratura democratica (l'uso delle lettere minuscole NON è casuale) fu più duro dei pubblici ministeri (tra cui la Bocassini...pensa un po'...) e optò per la tesi più severa.
Non credo abbiano fatto un favore all'accusa, che quando si diventa più realisti del re...
Comunque questo è il resoconto di Bianconi del Corsera sulla pronuncia dei "Giudici dei giudici".
IL VERDETTO IN CASSAZIONE CHE PUO' CAMBIARE IL DESTINO DEL CASO RUBY
Quando fu approvata più d’uno sostenne che la cosiddetta legge Severino sull’anticorruzione (anno 2012, governo Monti) avrebbe reso più complicato il lavoro dei giudici. Soprattutto con la distinzione tra il reato di concussione, punito con il carcere fino a dodici anni e la nuova «induzione indebita a dare o promettere utilità», sanzionata con pene più lievi, fino a otto anni di galera. Come si può stabilire, infatti, se una persona s’è sentita costretta, oppure solo fortemente condizionata (conservando però un margine di autodeterminazione) a tenere comportamenti indebiti? Risposta difficile, perché bisognerebbe entrare nella testa del presunto concusso e tirarne fuori delle prove.
Ora sono le Sezioni unite della Corte di cassazione, il massimo organo giurisdizionale, a certificare questa difficoltà, parlando espressamente di una «zona grigia» determinata dalla nuova legge, nella quale è arduo stabilire se un comportamento possa essere qualificato come concussione o induzione. E con la sentenza depositata ieri hanno provato a rendere un po’ più netti i confini tra i due reati, anche per evitare brutte sorprese alla Consulta: se non si restringe l’indeterminatezza insita nella norma, scrivono, «l’incriminazione affidata esclusivamente al concetto vago di induzione si esporrebbe a evidenti censure di illegittimità costituzionale».
Il caso concreto affrontato dai giudici del «palazzaccio» riguarda una vicenda di presunte mazzette promesse in Puglia, ma il verdetto avrà conseguenze su casi ben più eclatanti; primo fra tutti la condanna di Silvio Berlusconi a sei anni di carcere per concussione pronunciata dal tribunale di Milano il 24 giugno scorso. È la storia della telefonata in questura con la quale nel 2010 l’allora presidente del Consiglio fece liberare la minorenne marocchina Ruby, spiegando al capo di gabinetto che la ragazza era nipote di Mubarak e bisognava evitare incidenti diplomatici. La Procura chiese la condanna dell’ex premier per «induzione alla concussione», ma il tribunale optò per la «concussione per costrizione»; la sola e perentoria chiamata del capo del governo che «abusò della sua qualità», condizionò a tal punto il capo di gabinetto da non lasciargli alternative.
Oggi la Cassazione fissa limiti ai due reati che potranno incidere su quella decisione e lascia credere che tra le ricostruzioni dei pm e quella dei giudici la più corretta potesse essere la prima. Perché il campo della costrizione viene nettamente ristretto. Secondo i giudici del «palazzaccio», per esserci concussione il pubblico ufficiale deve esercitare una vera e propria «minaccia»; non necessariamente «esplicita e brutale», anche «velata, allusiva, più blanda fino ad assumere la forma del consiglio, dell’esortazione, della metafora». Deve però avere «una carica intimidatoria» tale da costringere il concusso a cedere alle richieste, farlo sentire «con le spalle al muro». Non a caso diventa vittima del reato.
Nell’induzione introdotta dal legislatore, invece, la persona da convincere «conserva più ampi margini decisionali». Il pubblico ufficiale avanza le sue richieste attraverso «la persuasione, la suggestione, l’inganno e la pressione morale con più tenue valore condizionante» e chi le subisce può decidere di accettare o meno, anche immaginando un vantaggio (ingiusto) a proprio favore. È su queste differenze che dovrà concentrarsi d’ora in poi l’attenzione dei giudici, per valutare i singoli casi, qualificarli come reati e distribuire le rispettive pene. Se poi «il destinatario dell’abuso costrittivo o induttivo» è anch’esso un pubblico ufficiale, la «potenzialità coattiva o persuasiva» della pretesa indebita dev’essere considerata «in correlazione» con la particolare qualifica della presunta vittima. È il caso della vicenda Ruby e si può immaginare che per la Cassazione un pubblico ufficiale dovrebbe essere in grado di riconoscere l’illiceità delle richieste e magari di resistere. Ma sono indagini, anche «di natura psicologica», nelle quali possono entrare (ed entreranno) solo i giudici di merito. Sfidando la «zona grigia» introdotta dalla nuova legge.
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