Nei giorni scorsi qualcosina l'abbiamo detto su questa storia delle quote rosa , scrivendo il post
http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2014/03/quando-essere-donna-e-un-vantaggio.html e commentando così un articolo di Barbara Stefanelli sul Corriere della Sera ;
" Barbara Stefanelli, sul Corsera, nella polemica in corso sulle quote rosa esprime una garbata richiesta agli uomini del seguente tesuale tenore :
" Una preghiera agli uomini. In tutto questo dibattito, sospendete l’obiezione del merito. Volete dire che in Italia il merito ha trionfato finché non è arrivato questo fastidio delle quote?"
Gentile Barbara, purtroppo non possiamo esaudirla, per due mo...tivi :
1) questo fastido del "merito" per fortuna non è sollevato solo dagli uomini ma anche dalle tante donne che facendosi un mazzo tanto sono diventate Magistrati, Dottori, Avvocati, Architetti...in un numero pari quando ormai non superiore ai colleghi maschi, ed altrettante altre che magari facendo altro, pensano la stessa cosa.
2) non è che siccome il Merito in Italia, grazie soprattuto ad una certa cultura "egualitarista", ha sempre goduto di poco spazio, non resti un principio da finalmente rivalutare.
Come dice la famiglia Sofri (Father and Son ), se una cosa è giusta, e il Merito lo è, resta tale anche se il pulpito è sbagliato."
Detta la mia, mi ha fatto piacere trovare sulla stessa sponda un liberale che in tanti stimiamo e apprezziamo, cioè Piero Ostellino, che sull'argomento oggi ha scritto così
LA PARITA' DI GENERE IN REALTA' DISCRIMINA
L’idea di introdurre la «parità di genere» — l’applicazione di un sistema di «quote rosa», preferenziali, nelle candidature femminili per le competizioni elettorali e in alcuni ambiti economici e finanziari nei quali dovrebbe contare il merito — è l’ultimo caso della degenerazione della cultura politica dominante che disprezza il mercato, ignora le libertà e il merito individuali, assegna al governo il compito di correggere e di modificare l’evoluzionismo naturale e propone la regolamentazione-burocratizzazione dell’intera vita sociale. In realtà, la «parità di genere» ripropone la regola che domina ogni burocrazia e, da noi, la Pubblica amministrazione, dove promozioni, aumenti salariali e carriere procedono, più che per merito, per precostituiti automatismi e/o per anzianità, premiando indifferentemente chi se lo merita e chi no.
Il sistema di «quote», a favore delle minoranze nell’accesso a certi College, alle Università, a certi livelli nell’impiego pubblico, a quelli più alti nella Pubblica amministrazione e/o a facilitazioni sociali ed economiche, era stato adottato, negli Usa, a temperamento delle discriminazioni razziali delle quali avevano sofferto i neri. Si è rivelato subito controproducente, addirittura fallimentare, perché anomalo e avverso rispetto al sistema socio-politico e alla cultura del Paese. A rifiutarlo sono stati gli stessi beneficiati che aspiravano a migliorare la propria condizione per meriti propri, non per decisioni altrui. La cancellazione delle discriminazioni razziali era stata, allora, una scelta di civiltà fondata sulla competizione e sul merito di ciascun individuo, nero o bianco che fosse. I bianchi avevano capito che le «quote» sarebbero state la negazione di quell’ascensore sociale che è il mercato e che è il motore dell’american way of life di ogni cittadino.
Da noi, chi ritiene un errore l’imposizione delle «quote rosa» le considera, invece di un riconoscimento dei meriti e del ruolo sociale delle donne, un arbitrio maschile. In ogni caso, quale che sia il punto di vista dal quale le si giudichi, le «quote» preferenziali in favore di una parte della popolazione sono un residuo del democratismo — attenzione: che è cosa diversa dalla democrazia liberale — e dell’egualitarismo, che è altra cosa dall’eguaglianza delle opportunità sostenuta dai liberali. Democratismo e egualitarismo inquinano ancora il Paese, rallentandone lo sviluppo e la crescita. Forse, la Politica — che è l’insieme dei poteri di indirizzo e di coazione di ogni governo — dovrebbe darsi una regolata, soprattutto culturale. E adoperarsi per uscire dalle secche del Novecento, statalista, dirigista e totalitario — produttore di (false) certezze pubbliche, come quell’astrazione ideologica che è «la collettività» e in nome di un’idea di Bene comune autoritaria — e entrare nel mondo contemporaneo «come è» — scettico, relativista, empirico — nel quale ogni proposizione prescrittiva è verificabile, se vera o falsa, nella realtà effettuale e non si rifugia nell’utopia che si concreta, poi, storicamente, nell’imposizione, dall’alto, di costrizioni che ledono, con la dignità, le elementari libertà di chi vogliono favorire.
Il sistema di «quote», a favore delle minoranze nell’accesso a certi College, alle Università, a certi livelli nell’impiego pubblico, a quelli più alti nella Pubblica amministrazione e/o a facilitazioni sociali ed economiche, era stato adottato, negli Usa, a temperamento delle discriminazioni razziali delle quali avevano sofferto i neri. Si è rivelato subito controproducente, addirittura fallimentare, perché anomalo e avverso rispetto al sistema socio-politico e alla cultura del Paese. A rifiutarlo sono stati gli stessi beneficiati che aspiravano a migliorare la propria condizione per meriti propri, non per decisioni altrui. La cancellazione delle discriminazioni razziali era stata, allora, una scelta di civiltà fondata sulla competizione e sul merito di ciascun individuo, nero o bianco che fosse. I bianchi avevano capito che le «quote» sarebbero state la negazione di quell’ascensore sociale che è il mercato e che è il motore dell’american way of life di ogni cittadino.
Da noi, chi ritiene un errore l’imposizione delle «quote rosa» le considera, invece di un riconoscimento dei meriti e del ruolo sociale delle donne, un arbitrio maschile. In ogni caso, quale che sia il punto di vista dal quale le si giudichi, le «quote» preferenziali in favore di una parte della popolazione sono un residuo del democratismo — attenzione: che è cosa diversa dalla democrazia liberale — e dell’egualitarismo, che è altra cosa dall’eguaglianza delle opportunità sostenuta dai liberali. Democratismo e egualitarismo inquinano ancora il Paese, rallentandone lo sviluppo e la crescita. Forse, la Politica — che è l’insieme dei poteri di indirizzo e di coazione di ogni governo — dovrebbe darsi una regolata, soprattutto culturale. E adoperarsi per uscire dalle secche del Novecento, statalista, dirigista e totalitario — produttore di (false) certezze pubbliche, come quell’astrazione ideologica che è «la collettività» e in nome di un’idea di Bene comune autoritaria — e entrare nel mondo contemporaneo «come è» — scettico, relativista, empirico — nel quale ogni proposizione prescrittiva è verificabile, se vera o falsa, nella realtà effettuale e non si rifugia nell’utopia che si concreta, poi, storicamente, nell’imposizione, dall’alto, di costrizioni che ledono, con la dignità, le elementari libertà di chi vogliono favorire.
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