Commovente la storia raccontata sul Corriere di questo padre che porta il proprio figlio sulle spalle per condurlo a scuola, lontana dal suo paese quasi 8 chilometri. Naturalmente il lavoro ce l'ha in paese, e quindi deve tornare indietro, per poi riandare a prendere il figlio e quindi tornare di nuovo a casa. In tutto quasi 20 miglia, che poi la sera lo riporta a casa, e sono in totale una quindicina. Quasi 30 km. E questo ogni giorno. Figlio dell'Occidente, sono incredulo a storie così e mi dico "vabbè, sarà pure, ma è un caso che infatti finisce sul giornale". Non è proprio così, che l'articolo di Paolo Di Stefano, sul Corriere, racconta di un film documentario di Pascal Plisson (per un'occhiata al trailer : http://youtu.be/wf-Zt_Wid4U ) che mostra altri episodi dove bambini e ragazzi fanno sacrifici non concepibili solo per recarsi a scuola. Tratto comune di tutti questi paesi : non sono occidentali.
Dobbiamo sentirci in colpa per essere dei privilegiati ed essere nati nella parte giusta del mondo ?
Ovviamente no. Però santo Dio, costringiamo noi e i nostri figli almeno a vederli film del genere, così, per vedere se qualcosina cambia nel modo svogliato e scontato di vivere i nostri e loro privilegi.
Anche solo di un po'.
Il papà che fa 29 chilometri al giorno
per
portare in spalla il figlio a scuola
Il piccolo è disabile ma è il primo della classe. «Andrà al
college»
college»
È l’uomo dell’anno, secondo il Daily Mail . Meglio sarebbe: il padre dell’anno. Un omino, per la verità. Almeno a giudicare dalle fotografie, in cui lo si vede camminare con le scarpe da tennis e un giaccone pesante. Siamo nella Cina meridionale, sulle colline della città-prefettura di Yibin, provincia del Sichuan. Su sentieri polverosi e accidentati, tra muretti a secco e alberelli smagriti, il quarantenne Yu Xukang cammina con un bambino sulla schiena, tenendogli le mani perché non cada all’indietro. Con il figlio dodicenne Xiao Qiang adagiato dentro un canestro di vimini, il signor Yu Xukang percorre ogni giorno 18 miglia, ovvero 29 chilometri. A piedi. Dove vanno il papà e il suo bambino? Raggiungono la scuola, dove Xiao Qiang passa le sue giornate in classe, a scrivere e fare i calcoli come tutti i bambini del mondo.
4,5 miglia per andare, 4,5 miglia per tornare in paese a lavorare, 4,5 per tornare nella borgata di Fengyi Fengxi dove si trova la scuola, 4,5 miglia ancora per riportare il bambino a casa. 4,5 miglia quattro volte al giorno. Sveglia alle cinque del mattino, colazione, camminata andata e ritorno, lavoro, seconda camminata andata e ritorno, cena. E così via, se la matematica non è un’opinione: 18 miglia tutti i giorni, finché le gambe e la schiena reggono, e finché il governo non gli darà un aiuto, come ha promesso non appena la fatica di papà Xukang è stata ripresa e raccontata dalle tv locali. È la fatica di un padre che dopo il divorzio (nove anni fa) ha deciso di crescere in solitudine il figlio disabile e di permettergli di frequentare le scuole. Un piccolo Ercole delle colline cinesi. «Sono orgoglioso — dice — che Xiao Qiang sia il migliore della classe e sono sicuro che farà grandi cose. Il mio sogno è che un giorno si iscriva al college». Deve essere fiero anche di sé, se ha calcolato che finora, con il piccolo sulle spalle, ha marciato almeno per 1.600 chilometri. E continuerà a farlo, con la schiena sempre più ingobbita e le gambe sempre più deboli, se le istituzioni non si muovono. Certo il piccolo Xiao Qiang, con i suoi 90 centimetri di statura, non potrà rimproverargli nulla: suo padre ha fatto il possibile. E anche di più.
«Vado a scuola» un film diretto dal francese Pascal Plisson e uscito pochi mesi fa, racconta storie simili a quella del papà e del bimbo cinese. Racconta lo sforzo immane di tanti ragazzini, in Kenya, in India, in Marocco, in Patagonia, che devono alzarsi all’alba e attraversare fiumi, pianure, montagne, kanyon o foreste, per andare a studiare. Alcuni devono persino caricarsi di secchi d’acqua e di legna, perché la loro scuola non offre da bere durante la giornata e non garantisce il riscaldamento. Altri, i giovani Masai, hanno rinunciato a essere guerrieri pur di studiare. Zahira vive in un villaggio berbero nel Marocco con due fratelli e quattro sorelle e sogna di diventare poliziotto per difendere i diritti delle donne e dei bambini del suo Paese. La vediamo camminare sola, un velo nero in testa e uno zainetto sulle spalle, in mezzo a una montagna arida. Nella Baia del Bengala il dodicenne Samuel, figlio di pescatori poverissimi, deve percorrere 8 chilometri su una sedia a rotelle (ha contratto la poliomielite da piccolo) sfidando piogge, sassi e buche. Carlito si mette in cammino, con la sua sorellina, per 25 chilometri sulla groppa di un cavallo sfidando la Cordigliera delle Ande con la preoccupazione di non arrivare in ritardo a lezione.
Il documentario di Plisson è stato insignito del logo Unesco e racconta storie di oggi, che però ci appaiono lontanissime come provenissero dall’Olocene. I nostri nonni e bisnonni avrebbero potuto raccontarci fatiche simili, vissute negli anni della guerra, magari sotto le bombe, o poco dopo nelle campagne e nelle province italiane. Storie di povertà e di ostinazione che per fortuna sono archiviate sotto la voce «passato remoto». La morale delle favole di ieri e soprattutto d’oggi, che non sono favole, è fin troppo facile. Talmente facile che andrebbero lette (o proiettate) ai figli del consumo, annoiati dello studio, anzi esausti pur avendo camminato soltanto qualche centinaio di metri per raggiungere la loro scuola, zainetto sulle spalle di papà o di mamma, e sorbirsi svogliatamente qualche ora di lezione. Morale facilissima, per carità (e mettiamoci pure tutte le eccezioni del caso). Ma utile per crescere, come ogni morale della favola. Specie se qualcuno sa spiegare che quella di Xiao Qiang e di suo padre non è una bella favola ma una dolceamara realtà.
Paolo Di Stefano
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