sabato 5 aprile 2014

IL RENZI CONTRO GLI AYATOLLAH DELLA CARTA FA SPERARE IN UNA SVOLTA STORICA CONTRO IL MASSIMALISMO


Dopo la delusione Berlusconi, alcuni sono più attenti nel farsi affascinare dal nuovo seduttore d'Italia, Matteo Renzi. Chi oggi giustamente ne tesse le lodi di ottimo comunicatore, non dimentica che il suo antesignano fu proprio il Cavaliere, con stili diversi ma con un tratto comune importante e di successo : parlano e piacciono alla gente, mostrando di preoccuparsi poco o punto del resto. Naturalmente questo funzionò bene per il primo Berlusconi e fino al 2006...dopo sempre meno. Dopo la vittoria del 1994 lo avevano subito azzoppato, e quindi nessuno poteva accusarlo di non aver mantenuto promesse, ma dal 2001 al 2006 aveva governato, e i risultati erano stati deludenti (anche sfortunato l'uomo, che si beccò pieno pieno le Torri Gemelle, le guerre e l'insicurezza, anche economica, successiva). La vittoria del 2008 fu molto enfatizzata, per quel quasi 38% dell'esordiente PDL, dimenticandosi, un po' tutti, di due cose : 1) Prodi e due anni di governo continuamente in balia dei gruppuscoli che formavano l'Unione ( Rifondazione da una parte e Mastella dall'altra, in particolare, ma tanti in mezzo), col soccorso francamente inaccettabile dei senatori a vita, arruolati praticamente nella maggioranza ( vogliamo ricordare che nessuno li ha eletti ? ) , costituvano una bella spinta a chiunque si fosse presentato CONTRO quell'esperienza (chi scrive, solo nel 2008 votò per il Cavaliere, mai prima nè dopo ) 2) il PDL era la sintesi - malriuscita politicamente ma efficace alle urne - di Forza Italia e Alleanza Nazionale che nel 2001 avevano preso, separatamente, il 29% e il 12% e nel 2006 il 23,7 e il 12,3. Insomma, i due partiti, divisi, nel 2001 avevano preso più voti (arrivando, sommandoli, al 41% ) e nel 2006, perdendo di un soffio (24.000 voti !!!!! su base NAZIONALE ! ), il 36%. 
Insomma, quella fusione non portò chissà quale pieno di  schede, rispetto ai precedenti, ma ci voleva poco a battere il coraggioso Veltroni e l'esordiente PD (che pure fecero il 33%,  più della somma DS e Margherita del 2006, che uniti nell'Ulivo arrivarono al 31% ) dopo il mal di mare del secondo governo Prodi.
Tutto questo per dire che l'appannamento del centrodestra, la perdita dello smalto iniziale, con le speranze suscitate dall'"antipolitico" Berlusconi, era già in atto, come bene evidenzia nel suo saggio Gianni Orsina, dedicato all'analisi degli anni "berlusconiani". 
Adesso è Renzi a suscitare le stesse speranze di novità, di rottura con le liturgie note, e promettendo a sua volta di "cambiare l'Italia".  Certo, lo dice anche Grillo, ma il suo Movimento è isolato, in discesa - dal 25% al 20 - e non governa. Renzi invece è il Premier, e l'attuale leader del primo partito italiano. Sono fatti. Se uno vuole sperare, oggi, a chi si dovrebbe mai rivolgere ?
Un'altra novità importante, e se mantenuta, storica, è la rottura netta e senza esitazioni di Renzi con l'apparato più radicale della sinistra, dentro e fuori il suo partito. 
Guardate le dure parole verso la Camusso, le polemiche mai attenuate con il contestatore di turno, anche con scadimenti di stile ( "Fassina chi ? " ), l'assenza di timori reverenziali ("non ho giurato su Zegrebelsky e Rodotà" , due icone del mondo radical chic, quello delle piazze "fighe", che fanno i girotondi o si colorano di viola, gli indignados h24 ).  Tutto questo è musica per i moderati, per i liberali e i liberal, e naturalmente alimentano la speranza che finalmente anche in Italia sia arrivata una sinistra veramente riformista, capace di affrancarsi dal ricatto-complesso massimalista.
A questo dedica la sua nota Giovanni Belardelli, ricordando utilmente alla fine che poi, per dirsi veramente riformisti, le riforme bisogna farle, e possibilmente nel modo giusto.
Buona Lettura

Il Complesso a Sinistra che spaventa
i Riformisti 

 
Più o meno da che esiste, la sinistra italiana ha visto il prevalere delle sue correnti più estreme, che si chiamassero intransigenti, massimaliste o in altro modo ancora. Ciò è avvenuto per la forza di queste ultime, certo, ma anche per l’incapacità o il timore dei «riformisti» a scontrarsi davvero con i «rivoluzionari». Nell’Italia repubblicana questa incapacità doveva manifestarsi anche all’interno del maggior partito della sinistra, il Pci, che se da un lato ereditava l’insediamento sociale (cooperative, sindacati, camere del lavoro) e molte delle Politiche del vecchio riformismo socialista, dall’altro non riuscì mai a considerare la parola stessa riformismo altro che come un termine negativo.La decisa risposta di Renzi (sul Corriere di lunedì scorso) all’appello di Rodotà, Zagrebelsky e altri intellettuali contro una presunta «svolta autoritaria», nonché il duro articolo che il direttore di Europa , Stefano Menichini, ha dedicato ai firmatari di quel testo, indicano che forse l’antico timore dei riformisti a individuare negli intransigenti il proprio avversario ha fatto il suo tempo. È abbastanza evidente, infatti, che le prese di posizione degli ayatollah della Carta (così li ha definiti il costituzionalista Francesco Clementi), come – prima ancora – quelle di «girotondi», «popolo viola», intellettuali «indignati», pronti a gridare al pericolo autoritario ad ogni ipotesi di riforma della Costituzione, rappresentano da qualche anno la nuova forma assunta da quel vecchio male della sinistra italiana cui si faceva riferimento. Un male consistente nell’incapacità delle correnti riformiste d’uscire dall’angolo in cui vengono costrette dalle correnti più radicali. Ma adesso – ecco la novità – il nuovo gruppo dirigente del Pd sembra consapevole della necessità di separare i propri destini da quelli di «una sinistra intellettuale e politica – ha scritto Menichini – ormai portatrice (…) d’intolleranza, alterigia e presunzione».
Al di là del piglio decisionista e degli atteggiamenti forse un po’ troppo da smargiasso del presidente Renzi, la sua sfida riformista si lega alla sua provenienza culturale e politica, del tutto diversa rispetto a chi ha alle spalle la tradizione comunista. A Renzi risulta del tutto estraneo, infatti, quel mito dell’unità della sinistra che caratterizzava la vecchia tradizione socialista e poi quella comunista in virtù dell’imprinting marxista. Per il marxismo, essendo una la classe di riferimento (il proletariato), uno doveva essere il partito della sinistra. Tutte cose che Renzi avrà tutt’al più studiato in qualche esame universitario di storia.
È probabile, in ogni caso, che lo scontro con le posizioni della sinistra intellettuale più radicale egli lo abbia espressamente cercato. Si pensi solo al fatto d’invitare l’arcinemico Berlusconi al Nazareno; un invito che una parte del suo stesso partito ha vissuto alla stregua di una provocazione. Ma, appunto, qui sta anche uno dei due grandi rischi di fronte ai quali si trova ora la battaglia riformista del presidente del Consiglio. Il guanto di sfida lanciato a una sinistra intellettuale intransigente, infatti, è anche un guanto di sfida lanciato a una parte, forse maggioritaria, del suo partito. Di un partito che, non a caso, resta fedele al ricordo e al mito di Enrico Berlinguer, un leader di grande carisma ma che certamente non fu per nulla riformista. Nonostante le nostalgiche rievocazioni a cui abbiamo assistito ancora di recente tendano a farlo dimenticare, Berlinguer spinse anzi gli iscritti e gli elettori del suo partito verso una «deriva identitaria e solipsistica» – come scrisse dieci anni fa Piero Fassino in un suo libro – basata sulla rivendicazione della «diversità» comunista. Il secondo rischio che minaccia la sfida riformista di Renzi è sotto gli occhi di tutti. Ha a che fare con la possibilità che le riforme da lui annunciate, a cominciare dal monocameralismo e dalla riforma del titolo V della Costituzione, non riescano ad andare in porto. E, com’è evidente, un riformismo senza riforme non è cosa possibile.

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