sabato 28 giugno 2014

L'EGUAGLIANZA CHE PIACE AGLI ITALIANI : QUELLA CHE APPIATISCE I MERITI E SALVA PER QUESTO I DEMERITI


Ho il dubbio che i grillini , e la tanta altra gente che la pensa come loro, abbiamo male interpretato il motto di "Spiderman" : ad un grande potere corrisponde una grande responsabilità. 
Loro devono averlo inteso così : chi in qualche modo diventa destinatario di una qualsivoglia forma di potere, deve esercitarlo nella più completa disumanizzazione, con piglio messianico e direi quasi francescano. Questo, in una visione della vita, della storia e della realtà, completamente oniriche, per cui l'acquisizione del potere non passa per la lotta e non è soggetta ad attentati di altri poteri o di chi quel potere vuole farlo suo.
Viceversa, chi la storia la fa sul serio, o chi la legge con attenzione, sa per esempio che con l'affermarsi del potere parlamentare, i rappresentanti del popolo si dovettero guardare dalle ritorsioni di chi deteneva il potere esecutivo e dei suoi emissari, tra cui i giudici. 
Di qui l'istituzione del'immunità parlamentare, ma anche quella di altri organi isttuzionali di grande importanza, come - nel tempo - il Capo dello Stato, i rappresentanti della Consulta,  in molti e civili paesi anche quelli del governo.
In un delirio egualitarista di scadente livello, il mantra di queste persone è "uno vale uno, sempre e comunque". Come se la competenza e la responsabilità di chi deve prendere decisioni che influenzano la vita di tante persone possa essere paragonata, e trattata, alla stregua di quella di chi è già tanto se riesce a gestire la propria, di vita. 
In realtà, come ricorda benissimo Michele Ainis trattando il problema nell'editoriale di oggi del Corriere, in nessuna parte del mondo va così, né è mai andata in questo modo. 
Il potere non può essere cancellato, con tutto quello che esso comporta, anche a livello di garanzie particolari ( i maledetti "privilegi"), che ultimamente ho sentito mettere in discussione anche da amici solidi garantisti ma sedotti sulla via dell'uguaglianza ingannevole, come bene la definisce il costituzionalista e commentatore del Corsera.
Ma dove l'articolo di Ainis tocca livelli di eccellenza assoluta è nel finale, quando parla del MERITO - parola detestata da troppa gente di sinistra, chissà perché (complex inferiority ?) - , proposto come unica giustificazione della detenzione del potere e ideale cerniera tra due valori assoluti e a volte contrapposti : libertà e uguaglianza. 
"L'eguale libertà di essere disuguali".
Poi lo spiega, per chi ne ha bisogno.
A me basta già così per spellarmi le mani in un applauso.

L’ingannevole uguaglianza
di MICHELE AINIS 
 
 
Uno vale uno, senza un centesimo di resto. È lo slogan del Movimento 5 Stelle, ma è ormai diventato l’inno che intonano tutti gli italiani. Dopo un ventennio di crisi economica e morale, circola difatti un sentimento nuovo, o forse antico quanto il principio d’eguaglianza, che ne prospetta tuttavia la versione più estrema e radicale. Quella che a suo tempo si riflesse nel Manifesto degli eguali di Gracco Babeuf, ghigliottinato nel 1797. O nella formula di Bentham: «Ognuno deve contare per uno, e nessuno per più di uno». Sicché guai a chiunque eserciti un potere d’influenza, un’autorità giuridica o politica. Se siamo tutti uguali, quel potere è un abuso, un privilegio. Sbarazziamocene, e metteremo un piede in Paradiso.
Le prove? Per esempio il tormentone sull’immunità dei senatori. Cancellata nel progetto del governo, riesumata da un emendamento Calderoli-Finocchiaro: apriti cielo. Come si permette, questo nuovo Senato non eletto, a rivendicare una protezione negata ai comuni cittadini? Poi, certo, possiamo ragionarci sopra, anche a costo d’ottenerne in cambio fischi e pomodori. Osservando che l’immunità non s’accompagna all’elezione, bensì piuttosto alla funzione; altrimenti perché mai ne godrebbero i giudici costituzionali, orfani d’un voto popolare? Ma questi argomenti suonano ormai come sofismi, acrobazie verbali. D’altronde sembra un orpello anche lo Stato di diritto, di cui è figlia la separazione dei poteri, e nipotina la stessa immunità. Brevettata, guardacaso, dai profeti più intransigenti del principio d’eguaglianza: dai giacobini, nel 1790, dopo l’incriminazione del deputato Lautrec. Perché se il Parlamento non può annullare una sentenza, nessuna sentenza può annullare il Parlamento. E a sua volta il Parlamento non è l’unico organo dello Stato di diritto, benché sia l’unico legittimato dalle urne. In una democrazia costituzionale s’aprono altri canali di legittimazione, che investono per esempio la Consulta. O almeno: era così una volta, domani non si sa. Se uno vale uno, quell’uno dev’essere eletto dal popolo votante. Le polemiche sull’elezione del Senato trovano qui la loro scaturigine. Come del resto il sentimento di ripulsa verso l’immunità, l’indennità, l’autorità medesima di chi ci rappresenta. Se vuole il nostro voto, dovrà lavorare gratis, senza protezioni, e con un megafono che registri tutti i nostri umori.
Errore: nessuna società umana, neanche la più egualitaria, è mai riuscita a bandire il potere dai suoi ranghi. C’è sempre stato chi governa e chi viene governato. E quando i governanti hanno promesso l’assoluta parità fra gli individui, si sono presto trasformati in dittatori. Lenin immaginava che una cuoca potesse reggere lo Stato, ma intanto fucilava i suoi avversari. Da quegli avvenimenti è ormai trascorso un secolo, sarà per questo che ce ne siamo un po’ dimenticati. Invece dovremmo ripassarne la lezione: non si tratta di disarmare il potere, si tratta semmai di controllarlo. Per esempio attraverso la rotazione delle cariche, con un limite di mandati in Parlamento e nel governo. O attraverso il recall, la revoca anticipata degli eletti immeritevoli. 

Ecco, il merito. Rappresenta l’unica giustificazione del potere, e rappresenta al contempo la cerniera fra eguaglianza e libertà: l’eguale libertà di diventare diseguali, in base ai propri sforzi, nonché ai talenti che ciascuno ha ricevuto in sorte. Ma l’eguaglianza radicale di cui ci stiamo innamorando noi italiani ne è l’antitesi, il rovescio. Perché appiattisce i meriti, e perciò salva i demeriti. 



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