Angelo Panebianco è un liberale che ha fiducia in Renzi. Non a prescindere e non in bianco, però apprezza il suo modus ispirato alla determinazione e al cambiamento, il suo opporsi alla concertazione come must (chissà che ne pensa il presidente Ciampi ) , il vizio dei veti paralizzanti delle varie corporazioni tra cui comprendere i sindacati.
Dopodiché ricorda due cose altrettanto vere : il decisionismo non è il peccato mortale che pensano certe menti brillanti annidate soprattutto (ma non solo) nella sua parte politica, ma poi bisogna anche giudicare la QUALITA' delle decisioni , e da questo punto di vista il Premier non sta esaltando. Panebianco, che, come detto, una cambiale a scadenza l'ha rilasciata a Renzi, si limita a dire che in effetti la riforma del Senato non sembra una gran cosa, così come è, e quella della PA accennata ieri è veramente poca cosa, ancorché qualcosina di buono Panebianco lo vede.
Comprendiamoci bene : il compito di un governante in Italia è IMMANE, e non solo per i problemi grandi da affrontare ma per le ragioni ben precise per cui quei problemi si sono formati e incancreniti.
Però la sensazione è che forse chi qualche illusione se la faceva in questo senso era proprio il Premier e la sua - mediocre - squadra. La fretta non è prova di determinazione, e non è che una riforma purché sia è quello che ci serve. Quindi bene la decisione, bene la volontà di essere pronto alla rottura pur di portare avanti il suo programma, ma poi è fondamentale che questo sia chiaro e coerente, che i cambiamenti siano efficaci, e non solo il poter dire in tv : " Fatto".
Buona Lettura
UN SISTEMA BLOCCATO DA TROPPI VETI
Ma decidere non è una colpa
Almeno ci prova. Forse alla fine l’impresa si rivelerà più grande di lui ma,
per lo meno, Matteo Renzi sta forzando, spingendolo a cambiare, un
sistema politico-istituzionale, i cui riti, le cui pratiche, le cui
procedure, sono al servizio dell’immobilismo, della mediazione senza
decisione. Ottenendo per giunta, lui indiscutibilmente uomo di sinistra,
di essere trattato come un politico di destra da quella parte del suo
partito e del suo mondo abituati a credere che la decisione non abbia
nulla a che fare con la democrazia, abituati a credere che la cosiddetta
«dialettica democratica» sia più o meno raffigurabile così: un gruppo
di persone che si agitano tanto, stando, ciascuna, rigorosamente ferma
sulla stessa mattonella. Il massimo di movimento apparente unito al
massimo di immobilismo sostanziale.
Prendiamo la riforma della pubblica amministrazione. È un provvedimento complicato, ci sono dentro alcune cose giuste e altre, che avrebbero dovuto esserci, non ci sono (ad esempio non c’è quasi nulla che spinga alla responsabilità i dirigenti e all’efficienza gli impiegati). Però, almeno, è una decisione, anche se la legge delega fa presagire tempi più lunghi.
Prendiamo la riforma della pubblica amministrazione. È un provvedimento complicato, ci sono dentro alcune cose giuste e altre, che avrebbero dovuto esserci, non ci sono (ad esempio non c’è quasi nulla che spinga alla responsabilità i dirigenti e all’efficienza gli impiegati). Però, almeno, è una decisione, anche se la legge delega fa presagire tempi più lunghi.
Renzi è schiacciato fra due esigenze, è in equilibrio fra forze che lo spingono in
direzioni opposte. Da un lato, ha fretta, moltissima fretta. I messaggi
che manda al Paese sono sempre dello stesso tenore: «Devo fare subito,
prima possibile, quello che devo fare, quello che il Paese si attende.
Se non lo faccio subito non riuscirò a farlo mai più». Dall’altro lato,
Renzi deve misurarsi con problemi di grandissima complessità, sia
tecnica che politica, e la fretta può facilmente portare a decisioni
sbagliate: ad esempio, la riforma del Senato avrebbe avuto fin
dall’inizio molte più chance , se il progetto presentato dal governo non
fosse stato così fragile, così raffazzonato. Tra la necessità di fare
in fretta e la necessità di approfondire, la porta è molto stretta e
sulla capacità di passarci attraverso Renzi gioca la sua intera partita
politica.
Si tratti di politica delle nomine, di rifiuto dei riti concertativi, di
indisponibilità a farsi incastrare o bloccare dai giochi degli
oppositori interni di partito («il tempo delle mediazioni è finito»),
quella di Renzi è una politica della decisione che si trova a
fronteggiare sia istituti sia idee, visioni della politica, costruite su
opposti principi. Costruite, più precisamente, su un insieme di
(aberranti) sillogismi: «La decisione è di destra. La destra è fascismo,
l’opposto della democrazia. La democrazia, quindi, è non-decisione, è
mediazione senza decisione». Diversi Soloni, difensori
dell’intoccabilità della Costituzione, disinteressati o ignari di come
funzionano le buone democrazie, lo hanno eletto a dogma e il dogma, col
tempo, si è trasformato per tanta gente in luogo comune: provare a fare
dell’Italia una democrazia che decide significa coltivare disegni
autoritari, significa avere nostalgie di fascismo. È su questo scoglio,
su questa barriera mentale che si è sempre infranto, fino ad oggi, ogni
serio tentativo di riforma istituzionale. Ed è anche il paradosso del
politico Renzi.
Egli è indubbiamente un uomo di sinistra.
Lo è sulle questioni che, chiacchiere a parte, dividono sul serio la
sinistra e la destra: lo è sulla questione della redistribuzione dalla
classe media ai ceti meno abbienti (gli ottanta euro) come lo è sul tema
dell’immigrazione. Un politico di destra avrebbe fatto l’opposto di
quello che egli ha fatto in entrambi i casi. Ma poiché Renzi è anche un
decisionista, questa sua qualità di uomo di sinistra non è riconosciuta
da chi assurdamente assimila destra e decisione. Renzi ha una occasione
storica: può cambiare in un colpo solo i tratti di un sistema politico e
quelli di una cultura legnosa, logora,
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