sabato 2 agosto 2014

LA SPENDING REVIEW NON FUNZIONA PERCHE' IL CORPACCIONE DELLO STATO ANDREBBE RIVOLUZIONATO, NON RITOCCATO


L'odevole questo breve ripasso di Danilo Taino, sulla pagina delle opinioni del Corriere, della storia della spending review, che ha preso questo nome anglofono da poco tempo, ma la cui sostanza affonda le sue radici niente di meno che a 40 anni orsono.
Il giornalista dice una grande verità : se in 4 decenni si è fatto poco o nulla una ragione ci dovrà ben essere, e questa va cercata nella struttura stessa dello Stato italiano. C'è gente che pensa che bastino pochi ritocchi, soprattutto a livello etico (e se non riesce,  agiscano procure e polizia), perché il sistema possa diventare efficiente, invertendo la sua trista parabola. Taino fa presente che se fosse così facile, si sarebbe già fatto in così tanti lustri di propositi e di parole, con una sfilza di commissari speciali che si sono succeduti negli ultimi tre anni di emergenza.
Nel famigerato 2011, il debito pubblico era al 120%, ed era insostenibile. Era quella, secondo i biforcuti, la causa dell'impennata degli spread, con i mercati che non credevano più alla sostenibilità di un debito così grande ( senza chiedersi perché lo stesso spread era impazzito per la Spagna che aveva un debito che era la metà del nostro...). Oggi lo spread è a 150, e il debito al 135%....
Certo, contribuisce gravemente a questo dato la decrescita del PIL. Ma in questi anni di crisi e di interventi straordinari la spesa pubblica corrente è SEMPRE aumentata !!
E l'abbiamo tenuta a bada solo con salassi fiscali che hanno contribuito ulteriormente alla depressione economica.
Come dice sempre Giacalone, siamo arrivati a livelli tali dove non basta tagliuzzare qua e là, anche perché quei 4-5 miliardi che a volte si recuperano poi arriva il figo di turno che subito li spende in prebende elettorali (tra l'altro, notava Taino : " nel 2012 l’indicazione del governo era esplicitamente quella di ridurre il perimetro dello Stato, dal 2013 si è tornati a parlare solo di revisione e razionalizzazione delle attività pubbliche".
Letta pià Liberal di Renzino ? Almeno nei propositi, si direbbe di sì. 
Resta che qui non ci sono ritocchi, sforbiciate, caute riforme, ma rivoluzioni da fare. E questo non è paese da rivoluzioni. 




La lunga storia (ma senza risultati) 
dell’improbabile «spending review»
di DANILO TAINO 
 

Se la spending review non funziona — e non sta funzionando — può darsi sia perché non può funzionare. Perché magari è inadeguata, insufficiente a un Paese con le caratteristiche, i problemi e la crisi dell’Italia. Rivedere la spesa pubblica, razionalizzarla presuppone un’amministrazione dello Stato che ha sì bisogno di aggiustamenti e di limiti agli eccessi ma che di base ha una sua efficienza. Il problema, da noi, è decisamente diverso: sono la struttura e l’organizzazione stessa della mano pubblica ad avere bisogno di un intervento di trasformazione radicale che limiti la burocrazia, la renda efficace e meno opaca e riduca l’eccessivo intervento dello Stato nell’economia fatto di sussidi e di aziende (anche locali) controllate direttamente. Nel nostro caso, tagli e aggiustamenti non bastano e spesso non si riesce nemmeno a farli: servono riforme e probabilmente dovranno essere radicali.
Il mito del controllo della spesa pubblica inizia presto nell’Italia repubblicana. Già nel gennaio 1971, l’allora ministro del Tesoro Mario Ferrari Aggradi (Democrazia cristiana) pubblica un libro bianco sul tema e, tra l’altro, sottolinea una necessità che diventerà una costante delle intenzioni dichiarate dai governi, la riforma dell’amministrazione dello Stato. Da allora, il tema «revisione della spesa» sarà intrinseco a ogni programma, spesso sotto la denominazione di «lotta agli sprechi». Nella seconda metà degli Anni Novanta e con la nascita dell’euro, il problema diventa significativo: il bilancio va tenuto sotto controllo perché lo impongono i mercati e l’Europa, occorre allinearsi. Con parecchio realismo, viste le difficoltà politiche a fare scelte penalizzanti, e un po’ di cinismo, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti vara i tagli lineari dei governi Berlusconi. Ma è solo con lo scoppio della «crisi dello spread» del 2011 che il controllo della spesa pubblica prende il centro degli obblighi politici. E che il nome della cosa vira all’inglese, spending review .
Il governo Monti ci ragiona: il ministro dei Rapporti con il Parlamento Piero Giarda presenta un rapporto nel quale dice che si può intervenire subito su cento miliardi di spesa e in un secondo tempo su altri trecento. Viene nominato un commissario governativo alla spending review , il manager del settore privato Enrico Bondi, fama di grande ristrutturatore. Gli obiettivi e le aree di intervento cominciano a diventare chiari, dalla centralizzazione degli acquisti alla razionalizzazione delle spese della Sanità. I risultati sono però scarsi. Quando Bondi si dimette per andare a organizzare le liste elettorali di Mario Monti, al suo posto arriva il Ragioniere dello Stato Mario Canzio. Che presto viene però sostituito dal nuovo governo di Enrico Letta. Il quale chiede all’economista Francesco Giavazzi proposte di intervento: il professore,tra le altre cose, suggerisce un taglio di dieci miliardi ai contributi pubblici alle imprese. Misura fattibile ma che il governo non se la sente di realizzare.
Letta chiama poi Carlo Cottarelli. E il governo Renzi lo conferma nella funzione. Ma presto, come si è visto nei giorni scorsi, il meccanismo si inceppa di nuovo e Cottarelli si mette sulla strada delle dimissioni.
Ora, Matteo Renzi dice che la revisione della spesa andrà avanti comunque. Il dato di fatto, però, è che nonostante tutto il parlare di spending review e di fronte al gigantesco debito pubblico — avviato verso il 135% del Pil — il totale delle uscite pubbliche continua a crescere. Secondo calcoli di Unimpresa, nei primi cinque mesi di quest’anno è salito a 206,7 miliardi, dai 181,9 dello stesso periodo dell’anno scorso: un fantastico aumento del 13,6%. A rendere più grave il tutto, il fatto che sia la spesa corrente, «di funzionamento», a gonfiarsi: è arrivata a 192,7 miliardi, un aumento del 17%, mentre i mitici investimenti pubblici sono calati a 14 miliardi, una diminuzione del 21% sui primi cinque mesi del 2013.
Più di 40 anni di cosiddetto controllo della spesa e tre di emergenza grave suggeriscono che — nella combinazione italiana di politica, burocrazia e Stato pesante — i tagli non si fanno e, quando si fanno, i risparmi vanno a finanziare altra spesa corrente, come ha denunciato Cottarelli. Il problema è serissimo e viene il sospetto che tutti ormai sappiano che può essere risolto solo con riforme che alleggeriscano e rendano efficiente e trasparente l’amministrazione pubblica, abbinate a privatizzazioni che riducano la dimensione dello Stato. Introducendo elementi di concorrenza, come avviene in tutti i Paesi più moderni.
Mentre però nel 2012 l’indicazione del governo era esplicitamente quella di ridurre il perimetro dello Stato, dal 2013 si è tornati a parlare solo di revisione e razionalizzazione delle attività pubbliche.
La vecchia e rassicurante «lotta agli sprechi» è un’illusione del passato, come si vede non ha mai prodotto risultati. Oggi, è l’intero Stato di fronte alla sfida di cambiare, di trasformarsi. Tutto ciò che è qualcosa di meno di una total review non basta. E non funziona.

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